Lezione della Scuola di Liberalismo di Messina – 9 aprile 1999

La libertà è un concetto fondamentale della filosofia politica, la quale – a sua volta – rappresenta un settore della filosofia morale, e che il liberalismo – pur nella sua apparenza di movimento unitario e coerente, almeno da Erasmo in poi -, proprio perché si prefigge di approntare risposte e soluzioni razionali ai problemi per il raggiungimento di alcune mete, delinea un concetto di libertà che, di fatto, ogni generazione è costretta a riproporre sempre in nuovi termini e in diversificate prospezioni politiche, proprio in virtù della stessa valenza pluralistica del concetto di libertà, intorno al quale il saggio di Isaiah Berlin del 1958, Due concetti di libertà, ha avuto il merito di agitare le acque, inaugurando altresì un ricco e interessante dibattito che ha oltrepassato i confini di un dialogo interno alla filosofia analitica, coinvolgendo temi e problemi di filosofia morale di ampio respiro e di carattere filosofico più generale.

Soprattutto di questo saggio vorremmo qui parlare, in quanto gli altri tre saggi – unitamente all’ampia introduzione e all’appendice – possono agevolmente considerarsi delle chiose allo scritto del 1958, e che pertanto nell’economia dell’intero volume, nel quale si trova ora incluso, riveste una centralità indiscutibile. In esso circola – all’interno di una concezione pluralistica dei valori – questa idea del ruolo privilegiato, della priorità del concetto di libertà sugli altri valori politici degni di essere promossi e perseguiti. Certamente, nella storia delle idee questa assunzione non rappresenta una novità; la novità è piuttosto rappresentata dal modo di accostarsi a questo antico tema dell’etica liberale della individualità e della responsabilità morale.

Il rilievo primario che Berlin conferisce al principio “negativo” nella storia della libertà – cioè della libertà come diritto e come capacità – discende dalla necessità di individuare una sfera nella quale vige in modo indiscusso la libertà di scelta, e la cui riduzione mette in crisi la stessa definizione di libertà politica e sociale. E tra i molteplici sensi e significati del termine libertà (freedom e/o liberty), Berlin intende occuparsi di due soltanto delle accezioni che questa nozione registra: quella in senso “negativo”, compendiata dall’autore nella risposta alla domanda « Qual è l’area entro cui si lascia o si dovrebbe lasciare al soggetto – una persona o un gruppo di persone – di fare o di essere ciò che è capace di fare o di essere, senza interferenza da parte di altre persone ?»; e quella in senso “positivo”, che concerne invece « Che cosa, o chi, è la fonte del controllo o dell’ingerenza che può indurre qualcuno a fare, o ad essere, questo invece di quello ?».

Detto in termini che forse risulteranno più noti, anche se in certo senso più vaghi, si tratta della distinzione tra la libertà dei moderni (quella “negativa”) e la libertà degli antichi (quella “positiva”) o, ancora, della distinzione della libertà da (freedom from) dalla libertà di (freedom to), della libertà cioè come assenza di impedimento e/o di costrizione, e della libertà come autonomia, come autoderminazione da sé. L’una (liberta “negativa”) concerne l’azione, l’altra (quella “positiva”) la volontà. Mentre il soggetto della libertà “negativa” è l’individuo, quello della libertà “positiva” è la società, un ente collettivo. Volendo adoperare un linguaggio alquanto dispregiativo molto in voga in tempi più o meno recenti, si potrebbe dire che mentre l’una riguarda la libertà del borghese, l’altra invece quella del cittadino. Tuttavia la distinzione tra azione e volontà come qualifiche delle due modalità della libertà, delle quali qui si discute, credo che incontrerebbe delle resistenze da parte di Berlin, dal momento che l’identificazione della libertà con l’attività in quanto tale, o con l’azione, rappresenta, a suo avviso, un ulteriore fraintendimento del concetto di libertà “negativa”; e infatti così si esprime l’autore: « La libertà […] non è l’azione in se stessa, ma piuttosto la libertà dell’azione […]. Libertà è avere la facoltà di agire, non l’azione in sé; è la possibilità dell’azione e non necessariamente quella realizzazione dinamica di essa […] ».

L’assenza di vincoli esterni alla facoltà di agire – e che dipendono da ostacoli frapposti dalla volontà di altri individui, a meno che non si tratti di norme giuridiche – rappresenta la connotazione fondamentale della libertà “negativa” intesa come non-restrizione delle opzioni e come non-interferenza sulla vita privata degli individui. Una connotazione questa, che tra l’altro costituisce la caratteristica distintiva della tradizione liberale moderna, non conosciuta né richiesta nell’antichità greco-romana, dove l’idea di libertà veniva piuttosto declinata come “titolarità” per la partecipazione all’attività decisionale politica; oppure – come presso gli stoici – veniva intesa come obbedienza a leggi che ciascuno prescriveva a se stesso, nell’intendimento cioè della libertà come scelta razionale in accordo con principi che sono nostri, e in consonanza con un ordine morale naturale.

Ora, ritornando a Berlin, se le cose stanno nei termini sopra descritti, non si può non prendere in considerazione il carattere valutativo che insiste sui giudizi sulla libertà, dal momento che l’oggetto della libertà è rappresentato dalla facoltà di agire e di poter agire, piuttosto che il comportamento, nel senso che non possiamo fare a meno di formulare apprezzamenti circa il valore relativo o il significato delle azioni che la libertà o in nome della libertà vengono intraprese per il benessere umano e di noi stessi. Più in generale, si potrebbe anche dire che i significati diversi di tipi di libertà possono essere ricondotti alle distinzioni tra i significati di differenti scopi; dove, comunque sia, è sempre il soggetto a rappresentare l’autorità finale riguardo a ciò in cui la libertà consiste, come ha messo in evidenza Charles Taylor in un saggio del 1979, incluso nel suo interessante volume su The Idea of Freedom.

Il corollario che discende dal rilievo primario conferito al principio negativo nella storia della libertà come assenza di coercizione esterna e, segnatamente, come limite del potere pubblico, consiste nell’idea che quello che più conta non è tanto la forma di governo quanto, piuttosto, il grado della sua intrusione nelle scelte individuali. La qual cosa significa poi che il principio di libertà “negativa” è pre-democratico , mentre le indicazioni del post-modernismo tendono piuttosto a rifiutare la modernità della tecnologia a favore della modernità della liberazione, la quale inevitabilmente passa attraverso un ordinamento democratico, ossia del controllo del potere politico, dell’autoderminazione collettiva, che magari sarà un ideale-limite che però si ripropone continuamente, e che ci consente di approvare un regime quanto più questo si avvicina alla più ampia estensione possibile della libertà “negativa”.

Queste alcune delle suggestioni che la lettura del saggio di Berlin sollecita circa le forme di non-libertà quale prodotto di strutture oggettive, che finiscono poi con il coinvolgere altri temi, come per esempio a livello economico quello marxiano dell’alienazione, e a livello politico quello weberiano della razionalizzazione del potere legittimo nelle forme del potere legale, e a livello ideologico quello della “scuola di Francoforte” della manipolazione dell’opinione pubblica mediante le comunicazioni di massa. In ogni caso, siamo sempre all’interno di quella richiesta di garanzie del rispetto dei diritti dell’uomo e del controllo e dell’efficacia del potere, che appunto Berlin reclamava nel suo saggio del 1958, e che Raymond Aron – riprendendo una indicazione di Friedrich August von Hayek – ribadiva nel distinguere liberalismo da democrazia, nel senso che « Il liberalismo è una concezione relativa ai fini e alla limitazione del Potere, la democrazia una concezione relativa al modo di designazione di coloro che l’esercitano »; e, preoccupato delle sorti della libertà politica, precisava che « La logica del liberalismo conduce alla democrazia grazie all’intermediario del principio dell’eguaglianza davanti alla legge. Ma – aggiungeva – la democrazia esige, per essere reale, il rispetto delle libertà personali, libertà d’espressione e di discussione, libertà di associazione e di riunione. L’elezione non significa nulla se non comporta la possibilità di scelta ». Ma qui, data anche la problematicità che circonda l’identificazione delle caratteristiche distintive della libertà, ci troviamo forse più nell’àmbito delle concezioni “positive” della libertà, ossia in un’area dove spesso erroneamente la libertà viene identificata con valori politici che invece andrebbero tenuti distinti.

Così come la libertà non può essere ricondotta alla semplice assenza di ostacoli al soddisfacimento dei desideri di un individuo – per cui, per esempio, sarebbe sufficiente estinguere i propri desideri per ottenere questa libertà, allo stesso modo che soddisfacendoli -, vi è un senso più fondamentale di intendere la libertà che è individuabile non tanto nell’assenza di frustrazioni, bensì nell’assenza di ostacoli per le nostre scelte attuali, ma anche per quelle potenziali che il nostro agire potrebbe intraprendere. Va da sé che tra libertà “negativa” e libertà “positiva” non intercorre una grande differenza logica, si tratta piuttosto di una differenza valenza – e dell’adozione di un diverso atteggiamento – delle risposte alle due domande: « In quale area sono io il padrone ? », e « Chi è il padrone ? ». La confusione tra le diverse valenze delle risposte alle due domande può condurre alla trasformazione di una teoria della libertà in una dottrina dell’autorità e dell’oppressione. Ma in questo rischio sono coinvolte entrambe le due dimensioni della libertà, non solo quella “positiva” che, circondata dalla retorica di una metafisica razionalistica, fa coincidere la libertà con il rispetto della legge, e l’autonomia dell’individuo con l’ossequio all’autorità in nome di una “ragione” che si ritine ab-soluta, o di un “io ideale” superiore – di volta in volta identificato con le istituzioni, le chiese, le nazioni, le razze, gli Stati, le classi, le culture, i partiti; o magari con entità più vaghe come la “volontà generale”, il bene comune, le forze illuminate della società, il destino, ecc. -, contrapposto a un “io empirico” che avrebbe un marginale rilievo nell’economia dei destini del mondo.

Anche la libertà negativa – accennavamo – non è esente da rischi; e tale questione è ben presente nelle considerazioni di Berlin, malgrado il rilievo conferito alla liberta “negativa” , quando dice che « la libertà per i lupi spesso ha significato la morte degli agnelli»; un’espressione questa nella quale si possono intravedere le perplessità e i timori per gli eventuali disastri conseguenti, per esempio, a un individualismo economico lasciato a se stesso, e a una competizione capitalistica senza regole.

La citazione della frase di Berlin – almeno nelle mie intenzioni – vorrebbe suggerire un altro risvolto che è pur presente in questo saggio che, come spesso abbiamo ricordato, risale al 1958, e che quindi va letto come timorosa attenzione nei confronti di quei regimi totalitari che si proponevano di perseguire e assicurare una “vera” libertà, una libertà perfetta, di contro alle conquiste delle cosiddette libertà civili. Né, d’altra parte, il forte richiamo alla indispensabilità dell’impegno etico, che aleggia nelle pagine dell’intero volume, viene diminuito di spessore per avere come punti di riferimento le categorie del senso comune o del comune sentire di una società. In questo senso, direi che è senz’altro condivisibile il suggerimento di Salvatore Veca quando dice che il contributo di Berlin « consiste esattamente nel mettere a fuoco la dicotomia fra due distinti concetti di libertà; nel resoconto delle loro tensioni e conflitti; nella tesi a favore della libertà negativa rispetto alle richieste della libertà positiva »; con l’avvertenza però che la valenza pluralistica che viene conferita da Berlin al concetto di libertà ha come suo referente privilegiato il primato assiologico dell’individuo, per il quale la libertà non rappresenta un semplice accessorio, bensì una qualifica o proprietà della persona, un valore da perseguire, e che – in quanto tale – esige delle garanzie affinché ciascuno abbia riconosciuto il diritto a realizzare se stesso in modo proprio. La qual cosa, comporta l’assenza di ostacoli esterni, che non siano di ordine naturale, a ciò che si ritiene essere un’azione significativa e importante per l’agente che nessuna autorità pubblica, religiosa o laica, può impedire. Né, d’altra parte, questo riconoscimento impedisce di considerare l’intrinseco valore del concetto di libertà positiva, pur nelle disastrose degenerazioni alle quali spesso ha dato luogo.

Dunque, priorità della libertà “negativa”, ma anche considerazione del ruolo valorativo della libertà “positiva”. Il problema dunque è un altro: ed è quello di massimizzare quelle opportunità che possono assicurare un incremento generale della libertà, che però nessuna regola rigida generale può riuscire a risolvere una volta per tutte. Fatto è che, dal momento che sia la libertà “negativa” che quella “positiva” rappresentano e declinano dei fini in sé, questi ultimi possono entrare in conflitto insolubile – un conflitto tra valori ultimi o penultimi – non risolvibile con la postulazione di una monistica – e quindi gerarchica – concezione a priori nella quale si prefigurerebbe un disegno di armonizzazione, per i quali esempi non avremmo che l’imbarazzo della scelta nel pensiero filosofico della modernità.

Da questo punto di vista, il rilievo dato da Berlin alla libertà “negativa” – spesso frainteso come se si trattasse di una difesa incondizionata di questa contro quella “positiva” – intende essere una presa d’atto delle possibili incompatibilità che si possono verificare nei rapporti tra le due libertà; e in effetti di questa possibile conflittualità una esemplificazione di tutta evidenza può essere offerta dalla piena partecipazione alla vita comune, con le sue esigenze di cooperazione, di solidarietà, di fraternità o, ancora, con la richiesta di validazione di altri valori, quali la giustizia, la felicità, l’amore. Tuttavia, si tratta – appunto – di altri valori e di condizioni della libertà, che non possono essere scambiati con il concetto della libertà. Pertanto, la polemica condotta da Berlin contro il monismo – questa sorta di spettro filosofico che continua a disturbare i sonni dei filosofi, e che non si capisce bene perché occorra aderirvi neanche per “spirito” di sistema – è una critica dell’intolleranza alla quale inevitabilmente mette capo la “logica” che sottostà ad ogni concezione monistica, che intende soffocare – soprattutto in tema di libertà e di valori – quel pluralismo di fini spesso inconciliabili ma comunque in competizione tra loro. « Se desideriamo vivere alla luce della ragione – così Berlin – dobbiamo osservare delle regole o dei principi, poiché essere razionali consiste in questo. Quando queste regole e principi entrano in conflitto in casi concreti, essere razionali significa osservare la linea di condotta che appare di minor ostacolo alla realizzazione del modello di vita in cui crediamo ».

A rigore di logica, le due concezioni della libertà possono a volte sovrapporsi, ma non necessariamente o di regola, tant’è vero che la libertà dei diritti politici (= la libertà come non-interdizione) e quella dei diritti sociali (= la libertà come capacità effettiva), vengono in genere considerate come conseguenza e/o integrazione l’una dell’altra, nel senso che la libertà politica può essere ritenuta una condizione necessaria per il conseguimento e la conservazione delle libertà civili. In ogni caso, il presupposto di questa conciliazione è che l’interferenza dello Stato nella vita privata dei cittadini e negli affari economici venga ridotta al minimo; ma questo anche in ossequio o in virtù dell’ammissibilità di una concezione pluralistica della libertà e dei valori di cui parla Berlin. D’altra parte, basta porgere attenzione alle tensioni e collisioni che storicamente è possibile registrare tra liberalismo e democrazia, tra libertà e eguaglianza; tensioni e collisioni che sono state il risultato di uno scontro tra due visioni politiche e morali o, se si preferisce, di due visioni della vita.

Ma anche su questo ordine di problemi, occorre dire che la priorità storica spetta al liberalismo, cioè all’intendimento della libertà come diritto e valore in sé, che riguarda tutti i soggetti in quanto individui; mentre la libertà “positiva” – ossia l’esigenza/capacità di interferire o vincolare qualcuno – riguarda l’arena o il campo pubblico o collettivo, l’organizzazione politica della società, l’attenzione verso la quale – molto probabilmente – è stata favorita o agevolata dall’impatto del liberalismo con lo storicismo. In questo senso, sarebbe interessante analizzare il suggerimento di Gerald C. MacCallum Jr. di considerare la libertà come un concetto che designa sempre una relazione triadica tra agenti, vincoli e atti, magari tenendo conto delle pertinenti osservazioni formulate, in difesa del saggio di Berlin, da John N. Gray, al quale si deve – tra l’altro – un’ottima monografia sull’autore del quale ci stiamo occupando. D’altra parte, credo valga la pena rilevare che solo se l’individuo è personalmente responsabile delle proprie azioni – in quanto è libero di scegliere -, anche la sua azione può essere oggetto di giudizio etico, l’indispensabilità del quale vige – secondo Berlin – anche nella sfera teoretico/conoscitiva, e quindi anche nella storia in quanto quest’ultima è strettamente collegata con l’azione politica, e pertanto ha una valenza pratico/morale. Tra concetti descrittivi e concetti valutativi correrebbe – secondo l’autore – un sottile nesso, per cui anche una considerazione descrittiva distaccata e neutrale, rappresenterebbe pur sempre una posizione o un atteggiamento morale, dal momento che la storia – e quindi lo storico – si occupa prevalentemente di moventi e intenzioni umane, come già a suo tempo aveva altresì rilevato Robin George Collingwood in The Idea of History. Per concludere, potremmo anche dire che, malgrado il valore della libertà individuale venga considerato come un prodotto tardo della civiltà capitalistica, non conosciuto nell’antichità e che molto probabilmente altre generazioni future non conosceranno, tuttavia il suo declino – come abbiamo già detto, ma che qui conviene ribadire – può far perire una civiltà, mentre la sua difesa fa parte di ciò che rende umani gli uomini.

Dobbiamo prendere atto che è difficilmente contestabile la convinzione che – dopo la caduta del muro di Berlino – sia entrato in crisi un certo modo di intendere il corso del mondo, quello dello svolgimento storico, articolato all’insegna di certezze fino a qualche tempo addietro ritenute assolute e comunque tali da prospettare un inevitabile sbocco in un mondo di sicurezze.

Venute meno queste certezze e sicurezze, affidate a un mito del progresso che, al pari di quello già a suo tempo teorizzato dall’illuminismo, non ammetteva cadute ed eventuali squilibri, è venuta anche meno una “visione del mondo”, e sembra anche venuta meno la “ragione” di una contrapposizione con quella prospettiva per contestarne i fondamenti. Ma, per quello che qui ci interessa, l’essere liberale in “un mondo in trasformazione”, sembra oggi correre il rischio di diventare un luogo comune: infatti, sembra quasi di trovarsi in un’atmosfera diffusa e diffusiva nella quale ci si accorge – a un certo punto – di abitare come in una propria dimora, in compagnia di un ethos che ci è noto in quanto in qualche ci appartiene.

Sennonché – come suggeriva un filosofo che ancora oggi può dire cose interessanti, Hegel – “il noto deve diventare conosciuto”, aforisma questo che, trasferito sul tema del liberalismo, va declinato – come afferma Valerio Zanone in questo suo volume su L’età liberale. Democrazia e capitalismo nella società aperta – come esigenza di una interrogazione sui significati della libertà, di quella libertà che, a suo dire, « non è un dato naturale ma una ansiosa ricerca, e la sua storia non è altro che la storia di quella ricerca e forse di quella ansietà». Una notazione questa che potrebbe facilmente essere scambiata per un passo delle hegeliane Lezioni sulla filosofia della storia, o che potrebbe essere attribuita a Benedetto Croce: infatti, per entrambi – Hegel e Croce -, pur con non marginali differenze che tra l’altro Zanone sottolinea già nella introduzione al suo volume, la storia è storia della libertà, ma di una libertà che non è il portato di una “ragione astratta”, geometricamente disposta, nonché predeterminata e idonea a spiegare un corso storico, la cui fine si congiungerebbe all’inizio attraverso uno svolgimento necessitato, com’era – d’altra parte – la “ragione” vagheggiata dall’illuminismo, e non solo da quest’ultimo. Non è infatti un caso che l’espressione “filosofia della storia” venga coniata proprio nel periodo illuministico; ma non è di questo che dobbiamo occuparci quanto, piuttosto, dell’intendimento e della legittimazione del concetto di libertà attraverso una presa d’atto circa « l’impossibilità di conoscere la totalità dei fattori dai quali dipende il conseguimento dei fini individuali », come opportunamente fa rilevare Zanone, il quale – da studioso che ha recepito la lezione dello storicismo – diffida accortamente di coloro che ritengono di avere un “filo diretto con l’Essere” o con la Verità. Anche se poi l’ottimismo e la fiducia con i quali egli intravede l’inaugurarsi e realizzarsi di un nuovo “spirito del tempo” (Zeitgeist) del liberalismo – riprendendo o parafrasando un’espressione che, se non ricordo male, dovrebbe trovarsi ne Il problema delle libertà di Thomas Mann -, la realizzazione cioè del senso e del contenuto dell’epoca nuova che va affacciandosi alle porte del terzo millennio, questo ottimismo e questa fiducia – come dicevamo – non mi sembrano convinzioni che si possano agevolmente ricondurre a una visione drammatica della vita e della storia, quale piuttosto mi sembra essere quella del liberalismo, che è parimenti distante sia dall’ottimismo che dal pessimismo, sia da una concezione e considerazione della vita in termini di tragedia come di commedia.

Ora, una visione drammatica della vita comporta ed esige l’assunzione di responsabilità, quell’etica dell’individualità che nella capacità e facoltà delle scelte è necessariamente responsabile in proprio, nel senso che anche le sfide della modernità alle quali il liberalismo è chiamato ancora oggi a rispondere – sia pure in un’epoca non più di penuria di libertà, come quella che va profilandosi nel prossimo futuro – richiedono risposte che non possono essere delegate né a un assoluto, né affidate a una inevitabile realizzazione che il corso dei tempi sembrerebbe preannunciare.

Lasciando da parte queste considerazioni di ordine generale, quello che ci interessa qui discutere è la struttura del libro di Zanone che autorevolmente – da studioso e da uomo impegnato nella politica attiva – si inserisce con una propria fisionomia nel dibattito sul neoliberalismo e come contributo alla storia del movimento liberale, sul quale va ricordato quell’altro suo lavoro su Il liberalismo moderno, che può essere considerato una premessa ai problemi che la libertà è chiamata ad affrontare in una società industriale avanzata come è la nostra.

Quella centralità che è venuta assumendo nel pensiero politico moderno la modalità della libertà chiamata circostanziale – nella quale vengono tematizzati i limiti, le condizioni e le possibilità del darsi della libertà in una sua determinata prospezione, e che comunque è inclusiva delle valenze etiche, di valore morale che le accezioni della cosiddetta libertà naturale e/o di libertà acquisita intendono conferire e produrre -, sembra essere il motivo che può agevolmente essere assunto da sfondo per il riaprirsi della questione liberale oggi, ossia delle idee e dei progetti che all’interno di questa “fede” o ideologia – intesa come programma politico – vengono declinati e argomentati.

A questo proposito, visto che abbiamo adoperato il termine “fede”, siamo costretti a giustificarne il senso che, in questo caso, diventa un fatto conseguenziale che discende dalla definizione del liberalismo come “religione della libertà”; dove il termine religione va assunto nella sua accezione filologica di religio, ossia di ciò che tiene uniti; intravedendo quindi nel concetto di libertà quel comune denominatore mediante il quale si intende indicare – appunto – una “fede”, e nel caso specifico, un fatto della ragione e della razionalità, che pretende però anche essere senso del limite e capacità di comprimere gli abusi che in nome della libertà e delle ragione possono anche venire consumati.

Se prima dicevamo che non è semplice dare una definizione univoca del liberalismo, tuttavia si possono indicare alcuni connotati e caratteristiche che legittimamente potrebbero appartenere allo “stile” di vita, allo “stato d’animo” (una sorta di Stimmung) del liberale, individuabili – sia pure in una loro forma generica – nella ricerca razionale e sperimentale, nell’antidogmatismo, nella propensione alla tolleranza e al rispetto dell’alterità come regola di vita, nel riconoscimento e nell’accettazione del pluralismo dei valori, nell’adozione dello scetticismo come metodo e non come risultato. Certamente queste sono delle indicazioni generiche che potrebbero appartenere ad altri e differenti soggetti politici, ma in ogni caso rappresentano dei punti irrinunciabili del modo d’essere liberale. Principi questi, dai quali poi discendono alcuni corollari, come quello che venga data la possibilità di un libero svolgimento dell’iniziativa individuale, limitando e controllando innanzitutto l’ingerenza dello Stato nella sfera privata dell’individuo, favorendo l’instaurarsi di un vero e proprio Stato di diritto, quale conseguente e necessario – in quanto indilazionabile – sviluppo del costituzionalismo.

Ora, il liberalismo novecentesco non poteva non scontrarsi con la cultura democratica, e il conflitto non è stato marginale o di poco rilievo, soprattutto se – anche ai nostri giorni – si pensa alle tendenze illiberali che la democrazia contiene in sé, quando – per esempio – da meccanismo di selezione di coloro che detengono il potere, valica i propri limiti a danno delle libertà individuali; per non dire di tutti quegli altri problemi e tensioni che discendono dall’appartenenza alla società civile, che richiedono l’apprestamento di modalità di convivenza e di composizione circa interessi e fini spesso conflagranti e incompatibili; che poi sono quelli che una “democrazia liberale” si pone – appunto – nel tentativo di una conciliazione tra liberalismo e democrazia.

Comunque sia, questa trasformazione del liberalismo in “democrazia liberale”, e la congiunzione dei due termini che ne consegue – libertà ed eguaglianza, che per una lunga tradizione sono stati assunti in valenza oppositiva -, richiedono e comportano l’esigenza di un apprestamento di regole, di leggi, di procedure idonee per rispondere non più alle sfide della modernità, bensì a quelle della storia, magari spostando l’attenzione dalle libertà civili e politiche alle condizioni di possibilità della libertà nel campo economico e sociale.

D’altra parte il liberalismo ci ha abituati a vedere convivere al suo interno più anime, registrando caratteri compositi che appartengono a differenti tradizioni culturali: tendenze e prospezioni empiristiche, razionalistiche, ma anche idealistiche – si pensi alla via idealistica perseguita da Thomas Hill Geen, con il suo liberalismo sociale, in Inghilterra, e da Benedetto Croce, con il suo storicismo idealistico qui in Italia. Si tratta di una pluralità di prospettive, che attestano e confermano la ricchezza culturale di un movimento che dal Settecento in poi ha avuto e riceve, ancora oggi, sviluppi sorprendenti, di cui il libro di Zanone sul dibattito interno al neoliberalismo rappresenta una compiuta sintesi e un punto obbligato per un primo orientamento.

Pur essendo alquanto refrattario all’uso del periodizzamento del corso storico, devo dire che apprezzo la scansione proposta da Zanone per indicare le vie che dovrebbero condurre all’epoca dei diritti universali; si tratta dell’assunzione emblematica di alcuni eventi epocali che riguardano tre anni memorabili: il 1945, il 1968 e il 1989, anni questi che hanno segnato tre generazioni, quelle stesse che si stanno affacciando all’avvento del terzo millennio. Inoltre sono date queste certamente non casuali, ma che indicano piuttosto accadimenti che hanno determinato delle vere e proprie fratture rivoluzionarie, delle cesure, la fine di un’epoca, e non tanto o non solo in riferimento alla storia delle idee. Il 1945, per esempio, è stato importante per la generazione di allora che – come efficacemente si esprime Zanone « vi apprese la giustizia riparatrice del tempo. La lezione del 1945 mostrò che la verità è davvero temporis filia, non auctoritatis; e il tempo genitore della verità è capace di risarcire, seppure vent’anni dopo, i chierici che non tradirono». È stato il tempo della liberazione, della riacquistata libertà.

Il 1968 è l’anno della contestazione studentesca, con le sue spinte antirazionalistiche, vitalistiche, trasgressive di ogni regola e norma che non fosse riconducibile alla propria e privata egoità, a una sorta di conformismo dell’anticonformismo che nel bisogno/necessità del “collettivo” trovava , o riteneva di poter trovare, la sua più autentica espressione. E il 1968 è altresì l’anno del conflitto tra due generazioni, con tutte le contraddizioni non risolte che questo urto, questa scissione e rottura ha comportato. La diagnosi di Zanone di questo evento o, meglio ancora, “accadimento” che si è verificato quasi esclusivamente nei paesi industrializzati, è molto sottile e interessante; brevemente potremmo compendiarla nella convinzione che la vera molla della contestazione del ‘68 è stato il rifiuto – il “grande rifiuto”, di cui parlava Marcuse – dell’apparato disumanizzante predisposto e messo in atto nelle società industriali e postindustriali; un mondo cioè che – antikantianamente – era condotto, per la stessa “logica” che lo dirigeva, a considerare l’uomo come mezzo per un fine, e non come fine a se stesso.

Il 1989 poi, rappresenta il coronamento e la vittoria di una sfida della storia: la democrazia liberale piuttosto che volgere al proprio tramonto – come i vari profeti di disgrazie del messianismo rivoluzionario andavano da tempo predicando nelle loro fantasie e illusioni, spacciate per certezze storiche e quale risultato di uno svolgimento necessitato e predeterminato degli eventi – non solo non ha esaurito il proprio compito, bensì – con la caduta del muro di Berlino – ha addirittura inaugurato una nuova stagione, quale il dibattito odierno sul neoliberalismo viene ampiamente registrando.

Quali siano i termini di questo dibattito, il complesso libro di Zanone – “complesso” perché è il tema stesso ad essere non facilmente o riduttivamente esplicitato per la pluralità e diversità di espressioni, manifestazioni e dimensioni che articola -, intende renderci partecipi, coinvolgendoci nello scenario di questa nuova età dei diritti.

Non potendoci dilungare come invece le analisi di Zanone richiederebbero, mi limiterò a segnalare soltanto alcuni temi sui quali il neoliberalismo è oggi chiamata a dare delle risposte non più dilazionabili. Sono – in particolare – i temi di una “società giusta”, che non sia semplicemente quella che guarda solo al proprio benessere; della “eguaglianza” delle opportunità; della nuova “dimensione etica” nei nostri rapporti con l’altro, ma anche nei nostri rapporti con la natura e con la vita in genere, magari correggendo o ridimensionandola propensione antropocentrica che abbiamo ereditato dalla nostra tradizione culturale.

Sono inoltre, i problemi di una auspicabile conciliazione tra creatività individuale e liceità dei mezzi scelti per l’attuazione di fini economici; un rapporto questo che esige l’apprestamento di codici deontologici che riescano a disciplinare il disordine nel quale versa il mercato mondiale, ossia quei luoghi deputati alla gestione efficiente delle risorse di un paese, cercando di non confondere il mercato con il capitalismo.

Sono anche i problemi e le sfide dell’integrazione economica, cioè della globalizzazione, che dovrebbe esercitare la sua influenza e favorire lo sviluppo di sistemi democratici in quei paesi che ancora ne sono privi. Comunque sia, è altresì vero che c’è un capitalismo illiberale, che giustifica la richiesta avanzata da più parti (Croce, Dworkin, Novak, tanto per fare qualche nome) di una fondazione etica del liberalismo, declinato verso il rispetto del pluralismo e della frammentazione culturale del mondo e delle scommesse che una “società aperta” deve giocare e cercare di vincere.

In questo senso, sono degne di nota le sollecitazioni alle quali le analisi di Zanone ci sottopone, con l’invito a guardare avanti per la costruzione di un liberalismo adeguato alla nuova realtà di questo millennio che è già alle porte, senza comunque distogliere lo sguardo da quella che è stata la tradizione liberale. E si tratta di un invito che non possiamo rifiutare di accogliere se intendiamo riscoprire un nuovo gusto e un senso nuovo di intendere e fare politica, una politica magari più attenta a determinare una mappa di valori condivisibili.

Tutto questo presuppone però un esercizio di ragionevolezza, di intelligenza pratica (la phronesis di cui parlava già nell’antichità Aristotele), di capacità di giudizio, per cui le scelte non siano frutto solo di preferenze, bensì di impegno e responsabilità, ossia dei tópoi dove la libertà etico-politica deve esercitare le sue prove.

Ma vi è un altro suggerimento che possiamo – da laici, ma non laicisti – condividere con Zanone, e cioè di lasciare alla responsabilità personale dei singoli soggetti morali le decisioni e le scelte che riguardano la propria vita e la propria condizione umana; così come si può senz’altro essere d’accordo con la sua insistenza sul carattere tragico che è contenuto nell’idea di libertà, di quella libertà “pesante”, quale d’altra parte l’assunzione di un’etica della situazione richiede ed esige. « La libertà – fa molto opportunamente notare Zanone – non promette né salvezza né benessere, non offre ripari contro l’angoscia esistenziale. Ogni suo atto è equivoco e ambiguo perché contiene in sé anche la facoltà di negarsi: la libertà è una scelta che contiene sempre in sé la possibilità del suo contrario ».

Su un punto – a mio avviso – occorre comunque richiamare l’attenzione: quando si parla di relativismo etico quale portato di una morale laica, o anche di neutralità etica quale prospettiva più propria del liberalismo – come fa Zanone -, mi sembra che si corra il rischio di prospettare questa assunzione come una sorta di indifferentismo etico, o di un suo possibile avallo di quest’ultimo, favorendo magari una non improbabile confusione tra l’esigenza di pratica utilità, contenuta nel principio di tolleranza – che invita a non interferire sulle scelte di vita e sulle convinzioni degli altri – e il vincolo morale di responsabilità, che le nostre idee sul bene ci obbliga a perseguire come principio e dovere assiologico.

Inoltre, e sotto altro profilo, un’attenzione non distratta occorrerebbe prestare al rapporto che intercorre tra “verità” e “libertà”, tra verità e tolleranza: la verità di per sé è intollerante, in quanto chi si ritiene in possesso della verità difficilmente è disposto ad accettare o a far proprie le verità altrui. E allora ritorna l’antica domanda “che cos’è la verità ?” (Quid est veritas?, o anche Was is it Wahrheit ?).

L’antico interrogativo di Pilato nei confronti della professione di Cristo di essere testimone della verità, rappresenta un atteggiamento liberale, tollerante e neutrale quale si addice a uno Stato laico, al quale non interessa quello che un uomo può affermare come verità, nel senso cioè di una manifestazione del proprio pensiero. Ma quell’interrogativo può anche essere assunto e declinato come una dichiarazione di scetticismo nei confronti di un’affermazione dogmatica. La verità, per quanto possa essere intesa come evidenza o adeguazione dell’intelletto alla cosa (adequatio intellectus ad rem, come si diceva un tempo), articola una propria temporalità e storicità, ma anche una sua situazionalità, in quanto risposta a una domanda. Si può, quindi, essere d’accordo con Zanone quando avverte che « la nuova stagione dei diritti deve misurarsi contro un nuovo assolutismo», quello dei fondamentalismi, ossia di una mentalità e di una superbia prescrittiva. Pertanto, si può senz’altro condividere il suo suggerimento che, « se si imbocca la strada dell’individualismo etico si deve mettere in conto che la verità resterà all’orizzonte come un miraggio. La libertà individuale non si risolve nella verità perché non è altro che l’opzione fra il vero e il falso sempre gravata dall’onere della prova, l’incertezza della scelta, il rischio dell’errore. Se si sconta l’assenza di un traguardo finale il senso del percorso si orienta verso il razionalismo, l’empirismo, culture differenti che possono però essere accostate in quanto categorie mentali della laicità; il pensiero razionale come fondazione dell’essere, le prove dell’esperienza come fondazione del sapere, ma sempre dentro i limiti della ragione umile, dell’esperienza fallibile ».

Si potrà discutere sulle opzioni che il neoliberalismo propone, ma è un dato di fatto incontrovertibile che quest’ultimo continua a dare prove di vitalità e validità di proposte per questa nuova epoca del mondo, malgrado qualcuno – come il Wallerstein – ne abbia sentenziato la fine irreversibile, anche se non si capisce bene – in quanto non viene indicato né viene suggerito – con quale altra ideologia si possa uscire dalle macerie dell’attuale crisi strutturale del sistema mondiale per costruirne uno migliore. Non essendo profeti, lasciamo ai futurologi questo gravoso e ingrato compito.

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