Lezione della Scuola di Liberalismo di Napoli – 12 marzo 1999
Nella storia del liberalismo, l’età della rivoluzione americana e della rivoluzione francese, rispettivamente 1776 e 1789, è l’età delle grandi formulazioni, delle grandi dichiarazioni dei diritti. Mi propongo di seguire la pista che distingue, ma anche accomuna, rivoluzione americana e rivoluzione francese in quest’ultimo quarto del secolo decimo ottavo, partendo proprio da una fondamentale differenza: nella rivoluzione americana non c’è dubbio che nascono le grandi dichiarazioni dei diritti, (a partire dalla Virginia, la più importante, poi negli altri stati), ma nasce soprattutto e immediatamente un solido impianto costituzionale. Per cui della rivoluzione americana, della esperienza storica e politica americana noi che cosa ricordiamo? La costituzione. Non dico che essa sia rimasta invariata fino al 1999, però l’impianto è assolutamente stabile. Tant’è vero che le modifiche costituzionali sono avvenute attraverso gli emendamenti, mentre la storia non dico abbia cancellato, perché non cancella nulla, ma ha archiviato quei manifesti ideologici importantissimi, che furono la dichiarazione della Virginia, eccetera, per dare ruolo protagonista alla costituzione.
Se andiamo a vedere la storia francese è accaduto esattamente il contrario. Che cosa ha fatto la storia della Francia rivoluzionaria? La dichiarazione dei diritti del 26 agosto 1789. Si ricordi che di dichiarazioni dei diritti ce ne furono parecchie altre, a cominciare da quella del 1793; però quando si parla di dichiarazione dei diritti tutti intendono quella del 1789. Non è così quando si parla di costituzione. La costituzione fu del 1791, ma non ebbe seguito. Ce ne furono tante altre, l’una divorata dalle altre.
Allora, l’originalità della nostro tema storico è: come è possibile che un identico tronco di cultura, a vario titolo riconducibile all’illuminismo, al liberalismo, abbia dato luogo ad una vicenda, quella americana, in cui le dichiarazioni vanno in archivio e la costituzione è entrata nella storia e ad un’altra nella quale in archivio vanno tantissime costituzioni mentre la dichiarazione è ancora oggi irrinunciabile? Quelli di voi che faranno esperienza in diplomazia, o semplicemente in giornalismo o in politica contemporanea si accorgeranno come tante volte quando si dice la dichiarazione dei diritti si intende quella del 1789 e non quella del 1948 di San Francisco. E non è una gaffe perché quando si decise, nel secondo dopoguerra, dopo aver conosciuto i mostri del totalitarismo, di ritornare la liberalismo delle dichiarazioni dei diritti, a che cosa si pensò? Si pensò al 1789 francese. Per comprendere quanto differenti siano state le esperienze americana e quella francese, paradossalmente invece di dire guardiamo prima l’americana e poi la francese o viceversa dobbiamo fare, dal punto di vista storiografico, una operazione diversa: cioè dobbiamo ulteriormente allargare il campo. In quale direzione? In quella che forse può essere considerata la testa di serie numero uno del liberalismo, cioè l’esperienza inglese, la rivoluzione del 1688, anche se nel liberalismo teste di serie non c’è ne possono essere. Ovviamente c’è una cultura liberale che si sente figlia della rivoluzione inglese contro la rivoluzione francese, così come c’è una cultura liberale che si sente figlia della rivoluzione francese contro la rivoluzione inglese; non è liberale stabilire quale delle due è quella veramente liberale. Questo perché vive all’interno dell’Internazionale Liberale, ricordano con qualche autorevole supporto storiografico e filosofico che in realtà non esiste una rivoluzione inglese, 1688, una rivoluzione americana, 1776, una rivoluzione francese, 1789, ma esiste una unica grande rivoluzione atlantica: un grande fiume la cui idea è la libertà, che ha un percorso di tipo lockiano in Inghilterra, un percorso ancora lockiano in America, ma molto integrato da Montesquieu, e poi un percorso di rimbalzo che viene dalla America in Francia con i primi rivoluzionari (tra cui Monsies che attraversò anche il periodo napoleonico) molti dei quali furono uccisi dalla forca giacobina, in quella che Furet chiamava il derapage totalitario del 1793: il terrore.
E allora questa unica rivoluzione atlantica, questa grande onda rivoluzionaria occidentale, su che cosa si basa? Si basa su una interpretazione in cui la cosa veramente centrale, veramente irrinunciabile del liberalismo, sono i diritti. Che poi questi diritti siano stati rivendicati e conquistati in nome della tradizione, è il caso inglese; o siano stati rivendicati e conquistati in nome della rivoluzione, della contrapposizione rispetto al passato, è il caso francese; metà e metà nel caso americano; è una questione assai meno appassionante rispetto alla dottrina liberale.
La dottrina liberale è al tempo stesso dottrina dei diritti da dichiarare (abate Sieyes nella Francia del 1789, cioè fondiamo una costituzione in un paese che non ha una costituzione: la Francia) oppure diritti da dichiarare. Che cosa vuol dire? I diritti sono semmai da preservare (Inghilterra del 1688), cioè rivendichiamo non i nuovi diritti ma ristabiliamo i diritti dei nostri avi contro un sovrano eversivo e una dinastia golpista, così diremmo oggi, e quindi il tema non è quello del potere costituente che opera ma quello invece di una costituzione da ereditare dai propri avi e da trasmettere alle generazioni successive ed è una costituzione talmente forte, talmente cogente che non si è immeschinita dall’essere espressa in una norma scritta, perché è un’abitudine, è una tradizione, è una consuetudine e ovviamente allora avremo l’esperienza di paesi, quelli anglosassoni, che sono dei paesi a diritto giurisprudenziale, nel senso che il diritto lo si ricava da come si è deciso giuridicamente in casi precedenti.
Nella accezione anglosassone il diritto è giurisprudenziale perché i diritti vengono prima e sono più importanti del diritto, mentre invece gli altri Paesi, quelli che ricadono nell’area continentale e non insulare e cioè quelli legati alla rivoluzione francese, si sono avute esperienze costituzionali nelle quali si è cercato non di fare conservazione ma di fare rivoluzione, cioè c’è qualcuno che si è attribuito il ruolo, il rango, l’onore, l’onere di essere il potere costituente.
Il caso dell’Inghilterra per quanto testa di serie numero uno, va lasciato però in una sorta di introduzione, se no non arriveremo mai alla Francia e all’America, perché la rivoluzione americana e quella francese avvengono circa un secolo dopo la rivoluzione conservatrice inglese. Che cosa avviene in Inghilterra nel 1688? Il partito liberale, il partito Wigs, trascinando in qualche modo il partito Tory, che era un partito a tasso di legittimazione costituzionale un po’ inferiore. Ha chiamato un sovrano straniero, Guglielmo d’Orange, e lo ha incoronato insieme a sua moglie, che era una Stuart, in nome di quella cosa che una volta in Inghilterra si diceva può fare tutto tranne cambiare un uomo in donna, cioè il parlamento.
La dinastia ha così assunto l’impegno di fronte al parlamento di operare secondo uno schema di governo misto: c’è il popolo, ci sono i lord, c’è il re. Che cos’è questo schema di governo misto? Dicono gli inglesi che è una cosa che già c’era, però l’elemento nuovo di questo sistema è il governo. In Inghilterra la dottrina politica conosce pochissimo la parola state; il governo di chi è? Non è più di sua maestà il re ma è il governo del parlamento. Quindi contrariamente a quel che sembrava a Montesquieu, il quale nella prima metà del 700 guarda all’Inghilterra ed esalta la separazione dei poteri, la separazione c’è rispetto alla giurisdizione, ma tra governo e parlamento c’è una fortissima saldatura. Quale è lo strumento attraverso il quale un governo è il governo del parlamento? Il fatto che il governo sia una responsabilità politica, quindi partitica. I ministri hanno indosso, una casacca, un colore, o Wigs o Tory. Si diventa ministro attraverso connections con il parlamento, non si diventa più ministro attraverso l’anticamera di sua maestà, o magari della sua amante. Il centro del potere politico, e quindi del controllo costituzionale, della dialettica, della libertà è il rapporto governo-parlamento. Il re non è più il vertice del potere esecutivo, ma è un simbolo, una tradizione, neanche un arbitro, ma è quello che ha consentito questa trasformazione.
Questa trasformazione è già evidente, quando gli americani, che non sono altro che europei fuori Europa, dicono: no taxation without rapresentation, cioè o nel parlamento inglese possiamo esserci anche noi, oppure ci facciamo un altro parlamento affrontando ovviamente l’onere con la tassazione.
L’esperienza costituzionale americana è un’esperienza affascinante, ma elementare, perché l’America non ha né una sovranità, né una aristocrazia, né una monarchia. L’America dice: noi giovani popoli cominciamo adesso. Quando questo affascinante esperimento rimbalza sulla Francia, uno solo è rispettoso dell’esperienza americana (ma dice che la Francia deve fare qualcos’altro) ed è l’abate Sieyes.
In Francia c’è il re, ci sono gli aristocratici, naturalmente senza sgozzarli (come esperienza di liberalismo sarebbe un po’ ardua). A sgozzarli ci penserà il Terrore. L’idea di Sieyes è che gli aristocratici non fanno parte della nazione. Seiyes ha un problema ed è la costituzione. La Francia non ha una costituzione; quella dell’antico regime è un’occupazione gotica della nazione francese. La nazione è l’insieme, il riferimento di cittadini che vivono in uno stesso regime giuridico; è, cioè, il concetto liberale di diritto comune (chi vuole un diritto speciale per se è come uno straniero: tali sono gli aristocratici, quindi se ne vadano, che poi è quello che accade.
La rivoluzione americana questo problema non l’aveva, perché l’aristocrazia non c’era; mentre la rivoluzione inglese, 100 anni prima, il problema lo aveva risolto esattamente al contrario, cioè aveva contrastato l’assolutismo limitandone l’assolutezza dalla parte dei corpi intermedi, da parte cioè del parlamento. Il problema della Francia è quello di fissare un riferimento di diritto comune; il che vuol fare una costituzione. Ma fare una costituzione non si può finché non abbiamo stabilito quali sono i diritti che hanno rango costituzionale. Ecco perché Seiyes con grande lucidità nel 1789 non dice facciamo la costituzione, dice facciamo prima la Dichiarazione dei diritti per poter fare poi la costituzione. E questa dichiarazione dei diritti chi ha titolo a farla? Non certamente il popolo. Sieyes è un liberale, non un democratico e quindi non ha il problema di affermare roussoianamente la sovranità della totalità del popolo. Per Sieyes questa rivoluzione viene fatta per intervento straordinario, dai rappresentanti del terzo stato. Cioè Sieyes intuisce da grande politico e da grande dottrinario che la convocazione di questo vecchio organismo tipico dell’antico regime, tipico di una società di ordine feudale, che non si riuniva in Francia da un secolo e mezzo, avrebbe determinato una tensione rivoluzionaria.
Come si fa la rivoluzione? Si fa separando i deputati del Terzo Stato dagli altri due e proclamando se stessi assemblea nazionale, cioè creando una frattura rivoluzionarie, perché coloro che li avevano mandati agli stati generali non li avevano assolutamente dotati del mandato di fare una costituzione, meno che mai una dichiarazione dei diritti. Serve però qualcuno che questa dichiarazione dei diritti la firmi e la faccia a sua, e chi può essere? Il popolo sovrano, no. Sua maestà il re. Sieyes non è affatto repubblicano, è un monarchico, che ha bisogno del re per poter cancellare la sovranità monarchica dalla storia di Francia. Poi avviene che questa dichiarazione dei diritti francese viene firmata dal re, dopodiché si capisce che il momento monarchico è finito.
Ma perché Sieyes dà alla dichiarazione dei diritti tanta importanza? La dichiarazione dei diritti è un testo molto bello (ma non meno bello di quelle dichiarazioni dei diritti di 20 anni prima, quali quella della Virginia): è un testo in cui ogni proclamazione delle libertà liberali moderne è un grande manifesto ideologico contro l’antico regime. Questa è la forza storica, antagonistica rispetto alla storia precedente che consente qui di usare a pieno titolo l’espressione rivoluzione, espressione che non so quanto sia pertinente nel caso americano e sotto certi aspetti è decisamente impertinente nel caso inglese, a meno che non si parli di rivoluzione in nome della conservazione. Allora il liberalismo che era apparso come motivo di antagonismo rispetto allo stato assoluto, rispetto alle monarchie centralizzatrici, aveva sostenuto il principio del diritto di resistenza alla legge ingiusta.
L’argomento che giustifica la rivoluzione atlantica (e cioè tutte e tre le rivoluzioni) è che esiste un diritto alla rivoluzione, un diritto di resistenza alla legge ingiusta. Cosa sulla quale Kant non sarebbe mai stato d’accordo, anche se questo non ci dice che Kant non sia un liberale. L’affermazione dei diritti non riguarda soltanto i diritti naturali della filosofia giusnaturalistica, e massonica della fine del Seicento e della prima parte del Settecento, ma anche quelli che debbono imperniare la costruzione dello Stato. Il liberalismo non nasce come esigenza di contrapporsi allo Stato in nome della società, in nome della persona umana, dell’individuo, ma afferma che la libertà individuale deve condizionare l’assetto dello Stato sia nella previsione programmatica sia nella organizzazione dei poteri dello Stato. Ecco perché c’è un liberalismo che si identifica con il costituzionalismo del XVIII secolo. Questo liberalismo secondo me è una dottrina dello stato e non una dottrina dell’abbattimento, dell’estinzione dello stato, perché questo liberalismo è un liberalismo, (come si vede in pensatori come Locke e come Sieyes) che è impregnato non soltanto di tecniche di costituzionalismo rispetto ai poteri dello Stato ma è un liberalismo al cento per cento liberista. Richiamo la grande lezione liberista della Scozia, umanistica e massonica del XVIII secolo, pensiamo a grandi scrittori quali Adamo Smith e Hume che fondano quel ramo della filosofia morale destinato a diventare economia politica, i quali scoprono il mercato come garante e regolatore di libertà fondamentali, ma lo scoprono in un ordinamento, la civil society, che è anche autorità.
Quelli che ritengono che liberalismo e liberismo abbiano strade diverse ripropongono la finta polemica tra Einaudi e Croce. Dico finta perché poi quando Croce doveva fare un programma economico si rivolse al liberista Einaudi. E viceversa: quando Einaudi, presidente della repubblica doveva mettere mano alla tabella della costituzione, e stabilire quali fossero le fondazioni che dovevano avere soldi pubblici si rivolse a Croce. Però l’idea che il liberismo possa essere un tipo di liberalismo che non costruisce lo Stato ma lo abbatte, è molto diffusa in alcune tendenze degli ultimi trent’anni soprattutto in America. Io ho l’impressione che ciò tenda un poco ad espellere dal liberalismo le proprie radici di costituzionalismo. Se io faccio la storia dell’Ottocento, sia in America sia in Francia, noto che c’è stato prima il liberalismo col liberismo, poi la democrazia, poi la tendenza ad allargare il suffragio, eccetera, cioè come se ci fosse stato un missile a tre stadi: prima c’è il liberalismo che arriva fino a Luigi Filippo, poi la democrazia, poi il socialismo. Schema tragicamente sbagliato perché quando poi la coscienza moderna ha scoperto, nel XX secolo, quell’assolutismo moltiplicato per mille e ben più assoluto dello stesso assolutismo che è stato il totalitarismo, il mondo uscito dal totalitarismo ha riscoperto proprio le dichiarazioni dei diritti, quelle radici di costituzionalismo che si erano, dal punto di vista storico, onorate facendo diventare limitato il potere legibus solutus e che erano perciò riferimenti irrinunciabili. Il fatto che un potere sia espresso dal popolo invece che dal re non significa che quel potere abbia titolo ad essere potere assoluto ed è questa la ragione per cui la dottrina liberale ha una sua intensità ed una sua specificità del tutto diversa da quella democratica. Quando noi usiamo l’espressione liberal-democratico la usiamo per comprenderci; però la democrazia può essere liberale e può essere illiberale. Il liberalismo non è necessariamente democratico, non perché è antidemocratico, ma perché ha un tipo di tensione ideale, un tipo di preoccupazione, un tipo di strumentazione che risale a queste vicende della rivoluzione atlantica, che hanno un’identità su cui tuttora vale la pena di soffermarsi.