Lezione della Scuola di Liberalismo di Milano – 27 marzo 2000
Il mio intervento non sarà di tipo accademico ma piuttosto una chiacchierata fra liberali, fatta un po’ di teoria e un po’ di pratica. La pratica viene da varie esperienze politiche e istituzionali, italiane ed estere, quale collaboratore dell’esecutivo negli anni Ottanta e, di recente, quale parlamentare e membro del direttivo di un partito. La teoria mi viene da una congerie di frequentazioni e di studi che mi pare inutile citare.
Innanzitutto una premessa. Che il nostro paese sia politicamente malato, nessuno credo s’azzarda a smentirlo. Detto questo, le cure che propongono sono per la maggior parte di natura partitica, e i partiti chiamati a consulto al suo capezzale si limitano a contrapporre diversi tipi di coalizione e di riforma elettorale, ove ritengano che ciò convenga loro per accrescere il proprio paniere di voti. Ciò dimostra (ed io questo contesto) come i programmi di una parte o dell’altra non siano un credibile impegno politico ma solo parte strumentale del gioco. Cioè si fanno e si disfano in linea con un solo obiettivo: la vittoria elettorale. La cosa sarebbe comprensibile se quel desiderio di vittoria nascesse dalla voglia di dare un buongoverno al Paese ma, così come oggi stanno le cose, vi è motivo di credere che a determinare quest’ansia di vincere sia soprattutto l’irrefrenabile voglia di comandare e il desiderio di garantire ai beati possidentes, ai fortunati vincitori, la stabilità di poltrona, anziché la stabilità di governo.
A discorrere con chi quei rimedi sostiene, ci si rende infatti conto come essi non siano tagliati su misura per curare il malato-Paese, ma piuttosto per favorire il medico, cioè quella parte politica, che riesce a imporre la propria cura, magari aggiungendo ingredienti incompatibili, solo perché graditi ad altri il cui sostegno accresce le probabilità di vittoria. Il caso di Rifondazione Comunista nel centro sinistra e quello della Lega Nord nel centro destra, sono solo i più noti.
Ma, per governare una società avanzata e complessa come quella italiana, non basta certo collocare al Governo una forza politica dotata di maggioranza numerica (non di rado politicamente frammentaria e conflittuale) né l’auspicabile qualità dei ministri: almeno altrettanto conta la congruità dei programmi e l’affidabilità delle istituzioni che devono portarli a compimento.
La politique d’abord, l’invadenza della politica nella Prima Repubblica, ha dimostrato sul campo i suoi limiti nell’amministrare l’Italia. La corruzione emersa con Mani Pulite è solo uno, e forse neppure il peggiore dei sintomi. L’amministrazione di uno Stato non può essere in balìa di impulsi politici (vedi, ad esempio, la mobilitazione frettolosa e inconsulta delle forze dell’ordine a ogni segnale di recrudescenza della criminalità), talora estemporanei e contraddittori, che non lasciano segno perché non vengono mai tradotti in azione continua, competente, rigorosa ed efficace da parte delle istituzioni. Se anche la cura elettorale e la qualità del governo fossero le migliori possibili, il malato-Paese continuerebbe a stare male: prima di tutto bisogna curare il frammentato e frastornato corpo dello Stato, ossia le istituzioni.
Da loro infatti, e in non piccola parte, dipende il buono o cattivo esito della politica e di questo sono profondamente convinti i Paesi occidentali politicamente più avveduti. In Italia invece è un argomento che non ha lettori né audience: se ne parla assai poco, quasi che le istituzioni altro non siano che manovalanza a disposizione della politica dei partiti. Quanto ciò sia sbagliato (rimaniamo all’esempio di prima) lo dimostrano i preoccupanti contrasti fra le forze dell’ordine, in larga parte attribuibili a cattiva gestione politica.
Nel mondo occidentale è convinzione generalizzata che la politica sarà sempre più condizionata dal contributo che le vorranno e sapranno dare le istituzioni, il cui potere e autonomia sono destinati ad aumentare parallelamente alla complessità delle loro funzioni, costrette a misurarsi con incognite crescenti dentro e fuori i confini. Motori indispensabili dello Stato, esse condizionano, nel bene e nel male, l’azione politica. Che vogliano e siano in grado di collaborare criticamente con la politica dipende in primo luogo dalla loro motivazione.
Si tratta quindi di capire, oggi in Italia, chi e che cosa le istituzioni siano chiamate a servire e come lo vogliano fare. La risposta scontata in merito al destinatario della loro lealtà è: “ohibò! la Patria “. Quanto al “come”, ci sarebbe da meravigliarsi se qualcuno osasse obiettare che solo il “senso dello Stato” le ispira, magari condendo il tutto con un pistolotto sulle comuni virtù di Patria e Stato. Sono però risposte che convincono poco.
Infatti, la Patria è in Italia più ignota del milite ignoto. È oggi poco più di una espressione retorica rispolverata, dopo cinquant’anni di oblio, solo perché torna comodo alla classe dirigente dare agli italiani, a basso costo politico, una coesione nazionale da lei compromessa. Se però, per dare corpo alla Patria, non basta la condivisione del suolo, del sangue, della lingua, della storia né di comuni consuetudini plurisecolari si può ben capire quanto poco servano i goffi e stucchevoli riti propiziatori messi in opera da una classe politica che della Patria, nel migliore dei casi, non potrebbe importare di meno.
La Patria, sostiene Rousseau, varia da nazione a nazione: “Può essere dominante e onnipotente in un popolo o ignota, senza alcun vigore, in un altro. La sapienza delle leggi e del governo la introducono, la consolidano, l’espandono, l’invigoriscono. I vizi l’indeboliscono, l’escludono, la proscrivono”. Amor patrio e senso dello Stato vanno quindi di pari passo e sono entrambi condizionati dalla qualità della politica e delle istituzioni.
Questa tesi è ampiamente condivisa nelle nazioni politicamente evolute e soprattutto dalla cultura anglosassone, i cui autorevoli esponenti sono convinti che quando la politica e le istituzioni sono sane e motivate, esse “ottimizzano il potenziale e l’influenza di una nazione” (Sprout, 1962). È anche vero l’opposto: cioè che vi sono ”nazioni impedite ad agire dalle loro stesse istituzioni” (Blount, 1957). Trova ampia conferma, anche in anni recenti, la convinzione e che “vi sono culture e istituzioni politiche che contraddicono le esigenze della nazione… (e) privando di Stato una popolazione omogenea, la lasciano in grave sofferenza” (Gellner, 1991). E qui mi fermo, evitando di entrare il merito a un tema che in passato ha coinvolto in Italia fra gli intelletti migliori e che oggi sta emergendo con difficoltà per colpa di mezzo secolo di oscurantismo politico e dell’intelligenza che gli ha tenuto bordone.
A questo punto, secondo l’opinione corrente, il problema della inadeguatezza delle nostre istituzioni si potrebbe facilmente risolvere attribuendo cariche politiche e istituzionali a persone dotate di grande intelligenza, cultura e valore civico, magari esigendo da loro la frequenza di scuole ad hoc prestigiose (come avviene in Francia dove, fra i governanti e gli alti funzionari, civili e militari, abbondano gli allievi dell’ENA e dell’
École Politechnique).
Non vi è dubbio che un tale rimedio contribuirebbe a migliorare il livello della classe dirigente del pubblico impiego e, quindi, delle istituzioni. Tuttavia, a prescindere che tale riforma non ha speranza di essere attuata per la resistenza opposta dalle stesse istituzioni, pervicaci nell’opporsi a criteri di competenza e di merito, chi propone un siffatto cursus honorum, lastricato di studi, pare che voglia ignorare che fino agli inizi degli anni Ottanta, ossia prima della degenerazione della Prima Repubblica, anche in Italia esisteva (ed esiste) una Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, né difettavano persone di qualità, nella politica come nelle istituzioni, né tuttora mancano università di prestigio pari alle più celebrate accademie straniere. Semmai ci sarebbe da chiedersi perché oggi politica e istituzioni non attraggano persone di qualità e perché scimmiottare, in questo solo campo, le altre nazioni faccia sperare nella soluzione del problema. Il caso della menzionata Scuola d’Amministrazione, di cui è noto il più che modesto livello, consiglia di non percorrere solo questa strada.
Puntare sulla qualità degli uomini, nella politica come nelle istituzioni, non è mai stata una agevole via da percorrere. Già nel XIX secolo, così commentava Tocqueville la situazione americana: ”Nei giorni presenti, raramente gli uomini più capaci occupano cariche pubbliche… il popolo non solo non sa scegliere uomini che realmente meritino fiducia ma spesso non ha neppure voglia di trovarli… mentre istintivamente gli uomini migliori evitano l’arena politica, in cui è troppo difficile conservare la propria indipendenza o fare carriera senza diventare servili…”.
Oggi assai più di allora, attrarre uomini di qualità per la politica e le istituzioni è impresa difficile, soprattutto in Paesi in cui entrambe sono affette da grave crisi di motivazione e credibilità. È pertanto importante per prima cosa rimettere ordine nella vita pubblica assicurandole regole che ripristino la fiducia dei cittadini nello Stato, imponendo alla politica e alle istituzioni un percorso di libertà, democrazia e competenza.
Fra queste regole, ricordiamo quelle della separazione dei poteri primari (legislativo, esecutivo, giudiziario) e degli equilibri e controlli fra loro, da estendere anche ai rapporti fra poteri politici (alternanza al governo, confronto fra maggioranza e opposizione, ecc.), fra istituzione e politica. Sono contrari a questa logica, la prevaricazione di uno o più poteri su altri, magari a nome dell’emergenza, della tempestività e dell’efficienza, come i tentativi di attenuare la separazione di ruoli fra parti politiche (consociativismo), nonché fra potere politico e istituzioni.
La tendenza a modificare l’equilibrio fra i poteri, non è di per sé cosa esecrabile, anzi è contestuale alla dinamica della politica e ogni attore del sistema ha talvolta buone ragioni per rivendicare maggiore influenza. Il fight for the turf, ovvero la lotta per il proprio orticello, può essere anche salutare espressione di competitività ed è motivo di preoccupazione solo quando crea strapotere, alterando in modo surrettizio il sistema della separazione e dell’equilibrio.
Nel dopoguerra, in l’Italia, l’equilibrio dei poteri è stato alterato a norma di Costituzione, legittimando la prevalenza del Legislativo sull’Esecutivo: è stata una scelta che ha profondamente segnato il tormentato percorso della Prima Repubblica, caratterizzata da Governi deboli e di breve durata, costretti a dipendere dal consenso del Legislativo per la propria sopravvivenza. Quando la Prima Repubblica è entrata in crisi con Mani Pulite, il Giudiziario si è avvalso del vuoto politico che ne è derivato, per esigere più influenza e potere. Oggi pare che sia il momento della rivincita dell’Esecutivo che travalica con disinvoltura la sfera di competenza del Legislativo, il quale fa poco del resto per meritarsi le prerogative che la Costituzione gli ha generosamente donato.
In sua parziale difesa, si può tuttavia dire che il Legislativo non è strutturato per esercitare il proprio ruolo a fronte d’una domanda sempre più esigente, varia e impellente e gli riesce difficile anche la sola funzione di controllo dell’Esecutivo, per la complessità e molteplicità degli atti da esaminare. Concorrono alla sua delegittimazione, la proliferazione dei decreti governativi e delle leggi delega, l’invadenza non trasparente di lobbies di vario tipo, le difficoltà opposte dalle istituzioni all’accesso di dati e informazioni e altro ancora.
Come già detto, l’indebolimento del Legislativo non è fenomeno solo italiano. Tutt’altro. Oggi, in ogni Stato evoluto, l’Esecutivo si ritaglia un ruolo crescente e, su questa linea, sempre più rilevanti porzioni di potere gli sono attribuite anche in Paesi, quali gli Stati Uniti, dove il Legislativo storicamente ha forti poteri e dove la spinta al decentramento è antica quanto l’unità della nazione.
A contribuire alla crescita di potere dell’Esecutivo provvede l’esigenza di metterlo in condizione di esercitarlo, requisito che im
pone un salto di qualità delle istituzioni che sono chiamate a servirlo. È un processo inevitabile e indispensabile ma non indolore, non solo perché rischia di emarginare ulteriormente il Legislativo, ma anche perché l’accentramento, motivato da esigenze di tempestività ed efficienza, porta alla contrazione del numero dei decisori politico-istituzionali e alla formazione di una sempre più esclusiva catena decisionale, a totale scapito della trasparenza e del controllo. Preoccupa in questo contesto l’infantile eccitazione dei nostri mass media allorché presentano, senza alcuna dovuta riserva, le cosiddette stanze dei bottoni con i loro illustri ospiti. Desta preoccupazione perché, seppure sia vero che l’Italia sta compiendo passi avanti sul profilo dell’efficienza, è anche vero che non va di pari passo la doverosa revisione dei ruoli e dei modus operandi.
Importa quindi
che la crescita di potere dell’Esecutivo non sia incontrollata. Il ruolo del Legislativo su questo tema resta fondamentale purché esso sappia e voglia mantenere una sua autonomia e l’opposizione faccia responsabilmente la sua parte. La contesa politica fra Legislativo ed Esecutivo è di fronte agli occhi di tutti mentre è difficile da osservare, controllare e contenere lo stabilirsi di eventuali rapporti impropri, cioè non di collaborazione bensì di pedestre subordinazione o ancor peggio di complicità, fra Governo e istituzioni. Una democrazia liberale deve sapere opporsi all’insorgere di queste tendenze.
Già agli inizi del XIX secolo, negli Stati Uniti destava preoccupazione lo strapotere della maggioranza che, per la sua influenza sull’Esecutivo, era in grado di condizionare e mortificare l’intero apparato istituzionale. Si temeva che, in tal modo, si venisse a formare un invisibile e illegittimo Quarto Potere, alterando artificiosamente l’equilibrio dei poteri. Quel rischio è poi svanito, anche a causa di varie contromisure che quella democrazia ha voluto e saputo adottare e il titolo di Quarto Potere l’hanno ereditato i mass media. Come e quanto essi ancora lo meritino, soprattutto in Italia, varrebbe la pena discutere, ma non in questa sede.
In teoria, oggi il rischio di strumentalizzazione delle
istituzioni da parte del potere politico si è molto attenuato. La complessità dell’amministrazione pubblica non può non conferire potere a chi conosce gli ingranaggi della macchina dello Stato. La consapevolezza della maggiore importanza del proprio ruolo, associata al mitico senso dello Stato, dovrebbe quindi indurre le istituzioni a privilegiare la propria funzionale autonomia nel quadro di un responsabile rapporto di collaborazione con la politica. Ancor più che in passato, la non ingerenza dovrebbe essere la chiave di lettura del loro rapporto. Ciò presuppone però che il corpo istituzionale sia consapevole del proprio ruolo e sia refrattario a ogni strumentalizzazione. Si può forse dire che questo sia il caso dell’Italia?
Non pare proprio. In Italia, l’asservimento delle istituzioni ai partiti è cresciuto soprattutto dalla metà degli anni Settanta, con l’accordo politico battezzato solidarietà nazionale, degenerato nell’intesa definita consociativismo. Quel processo è stato realizzato in più modi: nell’abuso di discrezionalità governativa nelle nomine di vertice nello Stato e nel parastato; nella strumentalizzazione da parte dei partiti anche della Corte Costituzionale; nella progressiva anemizzazione di organismi con funzione di consulenza e controllo (quali il Consiglio Superiore della Difesa); nel ridimensionamento del ruolo di istituti di controllo che infastidiscono l’Esecutivo (Corte dei Conti); nella personalizzazione dei rapporti fra membri di Governo e vertici istituzionali cui però si nega l’accesso alle sedi collegiali (Consiglio dei Ministri); nel prevaricante ingresso a titolo provvisorio (Gabinetti) o permanente nella funzione pubblica di elementi di partito, nella promozione di organi sindacali o parasindacali politicamente orientati e alternativi alle lealtà istituzionali; nelle corsie preferenziali di carriera per funzionari legati a un partito o nella sua area di influenza.
Se prima un burocrate, militare o civile, non si azzardava o riteneva improprio accedere a una sede di partito, oggi la frequentazione fra esponenti di partito e funzionari è consuetudine. La penetrazione po
litica nelle istituzioni è cosa praticata in tutto il mondo. Il guaio è che in Italia trova assai meno resistenza e viene condotta con spregiudicata assenza di trasparenza. È un po’ come l’araba Fenice: “che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”.
In questo modo si è venuto progressivamente a legittimare il massiccio e crescente ingresso dei partiti nelle istituzioni. Mentre la magistratura era stata infiltrata dalla sinistra dal dopoguerra in poi, fino agli anni Ottanta la diplomazia, le forze dell’ordine e le forze armate restavano terreno vergine per la politica. Con la sindacalizzazione e la smilitarizzazione delle forze di polizia, si è aperta la strada non solo a un contenzioso permanente e assai serio all’interno delle forze dell’ordine ma anche a un connubio sempre più stretto fra partiti, in specie quelli che formano l’Esecutivo, e istituzioni. Ed è solo per la bellicosità degli esponenti sindacali di polizia e carabinieri che è dato modo agli italiani di accorgersene. La politicizzazione della diplomazia e quella delle forze armate, seppure in crescita, non sono invece facilmente avvertibili. Il monito di De Gaulle di lasciare al politica fuori da quelle istituzioni, perché atta a corromperle, non ha avuto ascolto in Italia.
Se la lottizzazione sposata al consociativismo è mater certa di questo fenomeno, paradossale è che la sua attenuazione abbia peggiorato le cose. La regola dell’asso pigliatutto, applicata con crescente disinvoltura dall’Esecutivo, al centro come alla periferia, a nome di un condivisibile desiderio di efficienza, è ormai norma di malgoverno in Italia. Essa non ha tuttavia nulla a che vedere con il metodo americano, chiamato in causa a sproposito dal connivente politologo d’area. Quell’in-outer system (dentro-fuori) non è solo di breve durata, come dice il nome, ma è anche contenuto. È stato messo in opera, con chiare regole del gioco, per consentire, a ogni cambio di Amministrazione, di rinnovare i principali incarichi nelle istituzioni. Tale sistema, oltre ad assicurare lealtà politica all’Amministrazione, favorisce con trasparenza l’ingresso nelle istituzioni per breve periodo di esponenti di qualità. L’infiltrazione politica nella nostra amministrazione è tutt’altra cosa: l’Esecutivo può attuare senza troppi problemi e senza alcuna trasparenza la penetrazione capillare e anche permanente nella Pubblica Amministrazione, non a fini di governo bensì di un potere che può perpetuarsi anche oltre la sua stessa sopravvivenza.
Se alla crescita di potere dell’Esecutivo si associa l’impropria simbiosi con le istituzioni, quel potere invisibile che tanto preoccupava gli Stati Uniti nel XIX secolo può riemergere in deteriore versione italiana. In teoria, sarebbe di relativo conforto la constatazione che la litigiosità della maggioranza, oggi sotto gli occhi di tutti, impedirebbe l’asservimento delle istituzioni. Ma non è affatto detto che debba essere sempre così. Non solo la litigiosità interna alla maggioranza, e fra essa e l’Esecutivo, si attenua quando si deve spartire surrettiziamente il potere, ma altri Esecutivi potrebbero essere appoggiati da una maggioranza non conflittuale.
Vi è quindi il rischio che si stabilisca e si consolidi un patto improprio fra
Governo e istituzioni per cui il primo, secondo un conveniente e pragmatico do ut des, soddisfa le esigenze corporative delle seconde ottenendo in cambio una fedeltà ad personam che travalica i limiti degli obblighi istituzionali. Il numero eccessivo di personale di scorta a personaggi politici e il loro eccesso di zelo, mai adeguatamente contenuti dalle stesse istituzioni, è solo un aspetto minore di questo criticabilissimo rapporto. Se esso si esasperasse oltre ai già poco accettabili attuali limiti sarebbe surrettiziamente compromesso un importante aspetto della separazione dei poteri, procedendo più speditamente nella trasformazione dello Stato in meccanismo di potere. In Italia, ove eccede l’attenzione per l’effimero e la routine della politica mentre scarseggia quella verso ruoli e comportamenti delle istituzioni, il discorso può farsi pericoloso.
Quando, anche a sproposito, si parla di rischio di regime s’ignora che esso non ha modo di affermarsi ed esistere senza il sostegno delle istituzioni e solo quando quel sostegno è assicurato i rischi sono crescenti e reali. Anche per questo Mussolini è riuscito a governare per un ventennio senza problemi. Oggi, una volta soddisfatti gli interessi corporativi delle istituzioni o anche solo dei loro vertici ed essersele in tale modo asservite, l’Esecutivo non avrebbe difficoltà né obiettivi limiti ai propri appetiti di potere. Anche se quelli delle istituzioni dovessero crescere troppo, il prezzo da pagare sarebbe comunque molto inferiore al potere che con la loro acquiescenza sarebbe acquisito con un rapporto costo/beneficio che migliore non potrebbe essere. Peraltro, con istituzioni sane, competenti e autonome, cioè non sottomesse né complici, la metastasi della corruzione della Prima Repubblica non si sarebbe verificata. La paternalistica supponenza di alcuni esponenti politici e la docile sottomissione di esponenti delle istituzioni è un sintomo di un preoccupante malessere.
Si potrebbe a questo punto obiettare che non c’è da temere che una democrazia degeneri in chiave autoritaria poiché i cittadini nelle elezioni possono sottrarre consenso a chi non lo merita e darlo a chi invece fa mostra di meritarlo. Ma ciò non tiene conto del fatto che l’elettore non ha modo di valutare il candidato che è chiamato a votare, e può quindi sbagliare, ma soprattutto non è in condizione, posto che lo voglia fare, di verificare la congruità di comportamento dell’eletto una volta salito al potere. E, quando le istituzioni sono complici del potere politico, una democrazia si può trasformare progressivamente in regime, esercitando un potere arbitrario, assoluto, capillare, con l’inconsapevole consenso dei cittadini. Il desiderio di ciascuno di assicurarsi una migliore qualità della vita e la molteplicità dei problemi personali predispongono inconsapevolmente i cittadini verso un dispotismo paternalista. La rassegnazione non è forse un vizio tipicamente italiano?
Su questa evenienza, così s’esprime Tocqueville: “Il potere estende il suo braccio su tutta la comunità, la vincola con una rete intricata di regole, minute e uniformi, che neppure le menti più acute e i caratteri più forti possono penetrare. .La volontà di ciascuno non è frantumata ma ammorbidita ;non si chiede a ognuno di agire ma piuttosto gli si impedisce di agire. È un potere che non distrugge ma che mortifica l’esistenza; non tirannizza ma schiaccia, snerva, istupidisce e spegne la gente, finché la nazione non è ridotta al rango di un gregge in cui il governo è il pastore… né si può credere che un governo liberale, saggio ed energico, possa venire fuori per volontà di un popolo asservito”.