Lezione della Scuola di Liberalismo di Messina – 28 febbraio 2000

1. Parlare della tradizione liberale, significa parlare della “libertà dei moderni”. E parlare della “libertà dei moderni”, significa parlare di Constant. A lui, infatti, dobbiamo non solo il conio dell’espressione “libertà dei moderni”, ma anche l’individuazione dei suoi contenuti specifici attraverso la comparazione con quelli propri della “libertà degli antichi”.

La libertà degli antichi consisteva “nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, molte funzioni della sovranità, nel deliberare, sulla piazza pubblica, sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunziare giudizi, ecc.”. Tale libertà collettiva “era compatibile con l’asservimento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme”. E questo accadeva perché niente, nelle poleis greche, era concesso all’indipendenza individuale. L’autorità si intrometteva fin nelle relazioni più intime e le azioni private erano sottomesse a una sorveglianza occhiuta e severa.

Di tutt’altra natura è la libertà dei moderni. Essa si basa “sul pacifico godimento dell’indipendenza privata”. Il quale presuppone, prima di tutto, la distinzione fra la sfera pubblica e la sfera privata — una distinzione del tutto assente nella democrazia degli antichi, cui era estranea la nozione di libertà personale, concepita come una sfera protetta da ogni tipo di interferenza da parte delle autorità politiche e religiosa —; in secondo luogo, la nomocrazia, vale a dire il governo impersonale della legge; in terzo luogo, il riconoscimento che esistono diritti fondamentali che lo Stato è tenuto a riconoscere e tutelare. Fra questi ultimi, imprescindibili sono “il diritto di non poter essere arrestato, né tenuto in carcere, né condannato a morte, né maltrattato in alcun altro modo, a causa della volontà arbitraria di uno o più individui; … il diritto di esprimere la propria opinione, di scegliere il proprio lavoro e di esercitarlo; di disporre della propria proprietà e perfino di abusarne; … il diritto di unirsi con altri individui, sia per ragione dei propri interessi, sia per professare il culto che l’individuo preferisce;… il diritto, per ognuno, di esercitare la propria influenza sull’amministrazione del governo, sia concorrendo alla nomina di tutti o di alcuni dei funzionari, sia con rimostranze, petizioni, domande, che l’autorità è in qualche modo obbligata a prendere in considerazione”.

Ma Constant non si è limitato a distinguere con insuperata precisione la libertà dei moderni — vale a dire la libertà liberale — dalla libertà degli antichi. Ha avanzato anche una spiegazione sociologica della genesi delle due libertà.

La libertà degli antichi era strettamente legata a una specifica situazione storica, caratterizzata dalla guerra permanente fra le poleis. Donde l’identificazione del cittadino con il soldato, con tutte le sue inevitabili conseguenze: la militarizzazione degli spiriti, la disciplina draconiana, l’assorbimento dell’individuo nel gruppo, ecc. Insomma, le poleis erano organizzate come gigantesche caserme. E lo erano precisamente perché nella Grecia antica tutto era dominato da Polemos e dai suoi tirannici imperativi funzionali. Esempio estremo e paradigmatico al tempo stesso: Sparta; dove, per l’appunto, ogni cosa fisica e morale era subordinata, scientemente e programmaticamente, alle esigenze della guerra permanente, con il risultato che ai “liberi cittadini” fu imposta una corazza istituzionale dalla quale non potevano uscire.

Di tutt’altra natura è il contesto entro cui ha preso forma la libertà dei moderni. Mentre nei tempi antichi — scrive Constant — l’acquisizione delle risorse scarse avveniva, di regola, ricorrendo alla forza, nei tempi moderni il pacifico commercio è riuscito a sostituire la guerra; e ciò ha progressivamente modificato la cultura dei popoli europei a motivo di una “virtù” che è inerente al commercio medesimo. Infatti, “il commercio ispira agli uomini un intenso amore per la libertà individuale, Il commercio provvede ai loro bisogni, soddisfa i loro desideri, senza l’intervento dell’autorità” . In tal modo, è nato un tipo antropologico — il borghese — ben diverso dal cittadino-soldato; un tipo antropologico tutto orientato verso il pacifico godimento dei frutti della sua intraprendenza e che mal tollera ogni interferenza dello Stato nei suoi affari. Utilizzando il lessico di Marx, ciò equivale a dire che la “base materiale” della libertà liberale è la società borghese, la “società dell’industria, della concorrenza generale, degli interessi privati perseguenti liberamente i loro fini” ; dunque, la società centrata sul mercato e sulle sue istituzioni fondamentali: la proprietà privata, il contratto, le guarentigie giuridiche poste a protezione della libera iniziativa in tutti i campi. Il che significa che è stato il primato del commercio che ha fatto emergere un tipo di organizzazione sociale — la società borghese — entro la quale è nata e si è sviluppata la libertà liberale. E significa altresì che, su questo specifico punto, la posizione di Marx non è molto distante da quella di Constant: per entrambi infatti, la libertà liberale si è presentata sulla scena legata indissolubilmente alla società borghese; e la società borghese, a sua volta, è legata al riconoscimento dei diritti dell’uomo da parte dello Stato. Tant’è che nella Sacra famiglia Marx descrive lo Stato moderno come lo Stato che, proclamando i “diritti universali dell’uomo”, riconosce che la sua “base naturale” è la “società civile, l’uomo della società civile, cioè l’uomo indipendente” .

2. Prima di esaminare le condizioni strutturali che hanno reso possibile, nell’Europa occidentale, la formazione della società borghese, senza cui la libertà liberale non avrebbe potuto né attecchire né, tanto meno, crescere, conviene ricordare che il discorso di Constant si inserisce nel grande dibattito che aveva diviso l’intellighenzia francese nel secolo dei Lumi: il dibattito su Sparta e Atene. Si tratta di un dibattito la cui importanza non verrà mai sufficientemente sottolineata, In esso, infatti, troviamo i grandi temi etico-politici — la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà, ecc. — e le opzioni fondamentali che, a partire dalla Rivoluzione francese, sfoceranno nello scontro che ha così profondamente e drammaticamente segnato l’esistenza storica dell’Europa: lo scontro fra la democrazia liberale e la democrazia totalitaria . Indossando il mantello di Licurgo o quello di Solone, i philosophes si schierarono pro o contro la civiltà moderna. Tant’è che è stato giustamente osservato che l’Atene di quel dibattito altro non era, a ben guardare, che Parigi. Di qui il fatto che gli estimatori della società borghese, con in testa Voltaire, si dichiararono “ateniesi” e accusarono Rousseau e tutti gli altri partigiani di Sparta di essere ostili alla civiltà moderna e alla libertà individuale .

Constant si schiera con la massima decisione dalla parte di Atene. Atene, davanti al suo sguardo, rappresenta la prima incarnazione storica della libertà dei moderni. A tal punto, che egli non esita a sostenere che Atene fu, a petto delle altre poleis e massimamente di Sparta, una realtà sui generis, una vera e propria anomalia sociologica. Infatti, nel celebre discorso del 1819 leggiamo: “Di tutti gli Stati antichi, Atene è quello che più rassomigliò ai moderni, In tutti gli altri, la giurisdizione sociale era illimitata. Gli antichi come diceva Condorcet, non avevano alcuna nozione dei diritti individuali. Gli uomini non erano, per così dire, che delle macchine di cui la legge regolava le molle e faceva scattare i consegni. Lo stesso asservimento caratterizzava l’epoca d’oro della Repubblica romana; l’individuo si era in qualche modo perduto nella nazione, il cittadino nella città”. Ma ad Atene le cose si svolgevano diversamente. In quella città, la libertà dei moderni, la libertà personale come “tempio sacro”, non era affatto sconosciuta. Anzi, quanto meno nell’età di Pericle, essa era riuscita a germogliare in forme molto simili a quelle che avrebbe assunto nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti. E ciò era accaduto in quanto — è sempre Constant che parla — “il commercio aveva fatto sparire presso gli Ateniesi molte di quelle differenze che distinguono i popoli antichi dai popoli moderni. Lo spirito dei commercianti di Atene era simile a quello dei commercianti dei giorni nostri.” . Era dominato dal calcolo e da un “estremo amore per l’indipendenza individuale”. Inoltre, lo spirito borghese aveva intaccato lo spirito tribale a tal punto che gli Ateniesi mostravano una singolare disponibilità a conferire i “diritti di cittadinanza a chiunque, trasferendosi presso di loro con la sua famiglia, iniziasse un mestiere o impiantasse una fabbrica”.

Come si vede, è falso dire che Constant abbia affermato che gli antichi non conobbero la libertà liberale. Nel discorso del 1819 troviamo l’esplicito riconoscimento che ci fu quanto meno una polis che riuscì a pensarla e a istituzionalizzarla: l’Atene di Pericle. Né si può dire che l’analisi di Constant costituisca una distorsione ideologica della realtà storica.

Già dovrebbe essere sufficiente la lettura del celebre Epitafio di Pericle per toccare con mano che gli Ateniesi coltivarono un ideale di libertà molto simile a quello della tradizione liberale. La “scuola dell’Ellade” vi è descritta come una città “aperta a tutti” dove vige il più scrupoloso rispetto della legalità e ai cittadini è garantito, “nelle private controversie, uguale trattamento”, così come è garantito l’accesso alle cariche pubbliche in base al merito; in aggiunta, si sottolinea con orgoglio che i cittadini di Atene, a differenza di quello che accadeva nelle altre poleis, potevano vivere “in piena libertà” curandosi “nello stesso tempo e dei loro interessi privati e delle questioni pubbliche”; e potevano altresì “rendere la propria persona adatta alle più svariate attività”.

Fra le “svariate attività” alle quali potevano liberamente dedicarsi gli Ateniesi, quelle commerciali ebbero un posto così grande da indurre Karl Polanyi a scrivere che, capire la democrazia ateniese, “vuoi dire capire il posto che vi occupò il mercato” e che non si può intendere l’originalità di tale democrazia se non si tiene costantemente presente un fatto di “importanza cruciale”, e cioè che “Pericle abbracciò la causa dell’umile istituzione del mercato”. In effetti, mille indizi suggeriscono che, a partire dal momento in cui Atene divenne il “centro di un mercato universale” dove regnavano sovrane la legge e la libera iniziativa, il “lato economico della vita finì per sopraffare quello politico” e il “denaro divenne sempre più il centro dell’esistenza , con grande disappunto degli aristocratici; i quali, in aggiunta, dovettero assistere, impotenti e pieni di rancore, all’ascesa al pieno potere politico della borghesia, poiché — come si legge in un frammento dell’Eolo di Euripide — “la ricchezza sollevava gli uomini peggiori ponendoli fra i più elevati”. Gli aristocratici dovettero anche assistere alla democratizzazione e alla metamorfosi dell’areté, un tempo ritenuta “accessibile a coloro soltanto che l’avevano nel loro sangue divino. Nell’Atene di Pericle, grazie al fatto che, come ci informa Platone, “tutti godevano della maggior libertà di parola” e che si era formato un ampio mercato dei libri e degli educatori l’areté divenne un bene a disposizione della nuova classe egemone: l’aristocrazia del denaro. C’è di più: con il predominio dell’economia di mercato, si verificò il “declino dello spirito militare e il graduale scomparire del cittadino-soldato. Un nuovo tipo cominciò a predominare, un tipo certamente non ignoto ai nostri giorni, il tipo dell’uomo che desidera soltanto la vita tranquilla e la prosperità dei suoi affari”. E questo, come era logico che accadesse, portò all’affermazione della “pari dignità del pubblico e del privato” e alla “valutazione positiva dell’iniziativa individuale” e delle attività produttive. E portò parimenti alla elaborazione di “una filosofia del diritto alla felicità nella libertà, in un clima di eguaglianza formale per tutti dove la legge era sovrana nel garantire a ciascuno quella che oggi diremmo la libera esplicazione della propria personalità”.

Da tutto ciò risulta in termini sufficientemente chiari che Constant aveva colto nel segno quando indicava nell’Atene di Pericle il luogo genetico della libertà dei moderni. E risulta altresì che Popper aveva ragione nel descrivere il conflitto fra Sparta e Atene come il conflitto fra la “società chiusa” e la “società aperta”. Due modelli di organizzazione sociale si confrontarono e si scontrarono durante la guerra del Peloponneso: la caserma spartana e il mercato ateniese, la società collettivistica e la società individualistica, la libertà degli antichi e la libertà dei moderni. Ciò è tanto vero che uno dei più autorevoli studiosi della civiltà greca ha così commentato la concezione periclea della democrazia: “La libertà di comportamento fu il tratto distintivo della spiritualità ateniese. Contrapponendola nel modo più netto a Sparta, Pericle rivelò che Atene non voleva essere uno Stato militare, in cui tutta la vita del singolo era costretta all’addestramento livellatore della caserma… Lo spirito di libertà dominava tutta la vita cittadina. Atene disdegnava parimenti di chiudersi agli influssi degli stranieri e anche all’interno non conosceva controlli e tutele o inutili intromissioni nella vita privata. Lo Stato lasciva libero ogni cittadino di regolare la sua personale esistenza secondo i propri gusti… Per la prima volta nella storia universale non solo venne riconosciuto il diritto dell’individuo a una vita privata all’interno della comunità, la il libero sviluppo della personalità fu addirittura iscritto fra i fini dello Stato… Nell’Atene di Pericle, all’ideale del governo del popolo, s’intrecciò il principio fondamentale del liberalismo moderno, che cioè ciascun cittadino, all’interno dell’organismo statale, deve conservare la libertà di pensare e di agire autonomamente e di manifestare con franchezza la propria opinione, mentre lo Stato ha da immischiarsi quanto meno nella vita privata dei singoli”.

3.L’esito della guerra del Peloponneso ebbe conseguenze catastrofiche per il primo esperimento di “società aperta” che sia stato mai compiuto, anche se non tutto di quella straordinaria esperienza, andò perduto. La filosofia, nata nelle colonie greche ed emigrata con i sofisti ad Atene sopravvisse e, diventata la “tradizione dell’antitradizione”, continuò in qualche modo a “lavorare” con il suo spirito critico la civiltà occidentale. Ma non sopravvisse la libertà cittadina, “scomparsa a favore di un Impero mondiale organizzato burocraticamente, nel cui ambito non v’era posto per il capitalismo politico”. Bisognerà attendere il Basso Medioevo per assistere alla rinascita della società borghese.

Tale rinascita iniziò con la riapparizione sulla scena della figura della città-stato, la quale modificò il panorama dell’Europa occidentale a tal punto da indurre Toynbee a scrivere che “uno osservatore straniero che avesse studiato la Cristianità occidentale in qualunque data a partire dall’inizio del XII secolo fino a tutto il XIV avrebbe potuto pronosticare che la struttura politica della Cristianità occidentale si avviava ad essere una riproduzione della struttura del mondo greco-romano” Con una precisazione: che le nuove città-stato che presero a coprire a macchia di leopardo l’Europa occidentale erano città-mercato. Nate dalla rivoluzione comunale, esse divennero, per usare una felice immagine di Alfred Weber, le “crisalidi del primo capitalismo”. Ora, dire capitalismo significa dire tutta una serie di condizioni politico-giuridiche senza le quali l’economia di mercato non può né crescere, né, tanto meno, svilupparsi. Tali condizioni coincidono, almeno in parte, con la costellazione di diritti che, come abbiamo visto, Constant considerava costitutivi della libertà dei moderni, primi fra tutti i diritti di proprietà.

L’istituzionalizzazione dei diritti di proprietà dei sudditi è la chiave per intendere la singolare curvatura che ha assunto la parabola della civiltà occidentale a partire dalla rivoluzione comunale. Grazie ad essa, infatti, sono emersi, per tappe successive e attraverso una infinita teoria di conflitti di interessi e di valori, due fenomeni di enorme importanza storica: la rivoluzione permanente capitalistica e la formazione della società dei cittadini. Ciò risulta con la massima evidenza una volta che si confronti la condizione dei sudditi dell’Europa medievale con quella dei sudditi del mondo islamico.

Nel XII secolo il viaggiatore andaluso lbn Jubair visitò la Palestina. Dopo essersi compiaciuto della superiorità della civiltà alla quale egli apparteneva — un compiacimento, sia detto per inciso, tutt’altro che ingiustificato, dal momento che non c’era una sfera culturale nella quale i musulmani non erano all’avanguardia —, lbn Jubair non poté non constatare che i suoi correligionari, a dispetto del fatto che la Sharia proibiva esplicitamente di vivere in una terra dominata dagli infedeli, preferivano essere governati dai Franchi a motivo della “loro equità”, La cosa, naturalmente, molto ferì l’orgoglio del musulmano lbn Jubair. Ma, d’altra parte, come avrebbe potuto essere diversamente? Infatti, nel Dar al-Islam, la proprietà dei sudditi era sottoposta a tali vessazioni che il dominio degli infedeli non poteva non sembrare, agli Arabi della Palestina, il “regno della giustizia”. Il principio sul quale era nati e si erano consolidati gli Stati islamici era quello esplicitamente formulato dal celebre visir Nizam-al-Mulk nel suo Syaset-Name: “Il suolo del regno e i suoi abitanti appartengono al sultano”. Sicché, il sultano, “ombra di Dio sulla terra”, poteva disporre a suo piacimento dei beni dei sudditi, i quali, sia in punto di principio che in punto di fatto, non erano altro che concessioni, revocabili à merci. E, in effetti il ministero delle finanze degli Stati musulmani operava — giusta l’efficace definizione di Engels — come un “ministero del saccheggio”. La brutalità con la quale i sudditi venivano spogliati dei loro averi non aveva limiti. “Le vergate, la gogna, l’incarcerazione, le catene — si legge nell’opera di uno storico musulmano del XIV secolo” dedicata al Sultanato di Delhi —, erano tutti validi mezzi per ottenere il pagamento. E se i contadini, disperati, abbandonavano i loro villaggi, le “autorità davano loro la caccia come se si trattasse di selvaggina”. Quanto ai mercanti e agli artigiani, essi ricorrevano a mille espedienti per occultare i loro beni; il che, per altro, non era sufficiente per metterli al riparo da quella che era la regola generale del sultanismo: “Il visir confiscava la proprietà del governatore che cadeva in disgrazia… e il governatore si appropriava dei beni degli ufficiali inferiori e dei privati cittadini”. Evidentemente, Montesquieu non esagerava quando descriveva il dispotismo orientale come il regno dell’arbitrio e della paura.

Le conseguenze, catastrofiche sotto tutti i punti di vista, della totale assenza di garanzie poste a tutela dei beni dei sudditi sono state illustrate come meglio non si potrebbe da lbn Khaldun. “Vessare la proprietà privata — si legge nella Muqqadima —, significa uccidere negli uomini la volontà di guadagnare di più, riducendoli a temere che la spoliazione è la conclusione dei loro sforzi. Una volta privati della speranza di guadagnare, essi non si prodigheranno più. Gli attentati alla proprietà privata fanno crescere il loro avvilimento. Se essi sono universali e se investono tutti i mezzi di sussistenza, allora la stagnazione degli affari è generale, a causa della scomparsa di ogni incentivo a lavorare. Al contrario, a lievi attentati alla proprietà privata corrisponderà un lieve arresto del lavoro. Poiché la civiltà, il benessere e la proprietà pubblica dipendono dalla produttività e dagli sforzi che compiono gli uomini, in tutte le direzioni, nel loro proprio interesse e per il loro profitto. Quando gli uomini non lavorano più per guadagnare la loro vita e cessa ogni attività lucrativa, la civiltà materiale deperisce e ogni cosa va di male in peggio. Gli uomini per trovare lavoro si disperdono all’estero. La popolazione si riduce. Il Paese si svuota e le sue città cadono in rovina. La disintegrazione della civiltà coinvolge quella dello Stato, come ogni alterazione della materia è seguita” dall’alterazione della forma.

Stando così le cose, non può certo sorprendere il fatto che la civiltà islamica sia

scivolata, lentamente ma inesorabilmente, nel pantano della stagnazione; né, tanto meno, il fatto, di segno opposto, che, a partire dal XII secolo, l’Europa occidentale abbia iniziato la marcia che l’avrebbe portata a costruire e mettere in moto la macchina dello sviluppo economico, scientifico e tecnologico e a creare la prima — e, per ora, l’unica — civiltà dei diritti e delle libertà. Come ha riconosciuto uno storico arabo contemporaneo, già all’epoca delle Crociate, l’Europa era diventata una “società distributrice di diritti”. Certamente, la nozione di cittadino non esisteva ancora, ma i signori feudali, i cavalieri, il clero, l’università, i borghesi e persino i contadini avevano tutti dei diritti ben stabiliti. Nell’Oriente arabo, la procedura dei tribunali era più razionale; tuttavia, non c’era alcun limite al potere arbitrario del Principe. Lo sviluppo delle città mercantili, come l’evoluzione delle idee, non poteva non essere ritardato”. Insomma, a dispetto della generale arretratezza in cui si trovava, l’Europa medievale aveva un enorme vantaggio a petto della civiltà islamica: quello di essere riuscita ad istituzionalizzare tutta una serie di contro-poteri che limitavano l’autorità del Principe e che garantivano, in vario modo e in varia misura, i diritti dei sudditi. Fra i quali, di importanza fondamentale furono — conviene ripeterlo — i diritti di proprietà. Non a caso, già a partire da Guglielmo d’Ockham, non c’è pensatore politico occidentale — unica eccezione: Hobbes — che non insista sul concetto che, ove il Principe non rispetti i diritti di proprietà, cessa di essere un sovrano legittimo e si trasforma in un tiranno o in un despota. Persino un campione dell’assolutismo, quale fu Bossuet, proclamò essere la proprietà privata “sacra e inviolabile”.

4.Quando ci si interroga sulle cause che hanno permesso all’Europa occidentale di sfuggire alla “trappola dispotica”, non si può non vedere “nell’anarchia feudale” il fattore decisivo. Fu l’assenza di quella che Lewis Mumford ha chiamato la Megamacchina ciò che rese possibile la nascita e il consolidamento delle città-mercato. Grazie a queste “isole borghesi in mari feudali”, emerse uno dei tratti più caratteristici della struttura della società europea: il pluralismo politico-economico. Certo, a partire dalla costruzione degli Stati nazionali, buona parte delle città borghesi dovettero piegare la testa davanti ai monarchi. Ma, come ha recentemente sottolineato Finer nella sua monumentale storia dei regimi politici, i sovrani europei “non operarono su una tabula rasa”. Al contrario, si trovarono di fronte una intricata selva di autonomie, di corpi intermedi e di interessi solidamente costituiti che impedirono loro di diventare ciò che pure desideravano essere: padroni, legibus soluti, dei popoli sui quali regnavano. La concentrazione del potere nelle loro mani fu notevole, ma non tale da giustificare la qualifica di sovrani assoluti, che pure è stata loro attribuita. Tant’è che uno storico contemporaneo non ha esitato ad affermare che il loro assolutismo “fu solo una aspirazione”, non già una realtà effettiva. E questo perché — come si può leggere nel Saggio sui costumi di Voltaire — “in Europa ogni provincia, ogni città aveva i suoi privilegi. I signori feudali combattevano spesso questi privilegi, e i re cercavano parimenti di sottoporre alla loro potenza i signori feudali e le città. Ma nessuno vi riuscì”. Di qui il fatto che, anche all’epoca del così detto assolutismo, l’esistenza storica dell’Europa occidentale è stata caratterizzata dalla dialettica “Stato-società civile”. Lo è stata a tal punto che Lorenz von Stein è giunto ad interpretare la storia della civiltà occidentale come una “lotta ininterrotta dello Stato con la società e della società con lo Stato”.

Ora, è proprio dalla dialettica “Stato-società civile” che è emersa la tradizione liberale, cioè a dire quella tradizione di pensiero e di ingegneria istituzionale animata dall’idea che i cittadini hanno diritti inalienabili, che i governanti sono tenuti a riconoscere e a rispettare, esercitando la loro autorità entro il perimetro disegnato dalle leggi e dalla Costituzione. Fra tali diritti, quelli concernenti la proprietà dei mezzi di produzione hanno svclto — e svolgono — un ruolo di decisiva importanza. La ragione di ciò risulterà di evidenza solare una volta che si tenga presente che i mezzi di produzione sono — giusta la definizione coniata da Marx — le “sorgenti della vita”. Il loro controllo, pertanto, significa il controllo della vita. Il quale diventa totale e senza scampo se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani di un unico soggetto. E’ per questo che Proudhon, partito dalla convinzione che la proprietà privata era un furto, giunse alla conclusione opposta, e cioè che la proprietà privata era la libertà, così argomentando: “Lo Stato costituito nella forma più razionale e più liberale e animato dalle intenzioni più giuste è anch’esso una grande potenza capace di schiacciare tutto intorno a sé, ove non gli si ponga un contrappeso. E quale può essere questo contrappeso? Lo Stato deriva tutta la sua potenza dalla adesione dei cittadini. Lo Stato è la riunione degli interessi generali appoggiati dalla volontà generale e servita, al bisogno, da concorso di tutte le forze individuali. Dove trovare una potenza capace di controbilanciare questa formidabile potenza dello Stato? Non v’è che la proprietà…. Servire da contrappeso al Potere pubblico, bilanciare lo stato e in questo modo assicurare la libertà individuale: tale sarà, dunque, nel sistema politico, la funzione principale della proprietà”.

Alla luce delle parole di Proudhon, si capisce perché tutti i teorici liberali da Locke a Constant, abbiano tanto insistito sul nesso “libertà-proprietà privata”. Ma si capisce anche perché il liberalismo, a partire dalla seconda Rivoluzione francese — quella giacobina —, sia stato contestato frontalmente in nome dell’eguaglianza sostanziale e della universalizzazione dei diritti di cittadinanza. Il primo liberalismo fu, in effetti, il credo di emancipazione della borghesia. Nacque classista proprio in quanto identificò la figura del cittadino con il proprietario. Sul punto, la prosa di Constant è di una franchezza offensiva. “La proprietà sola — si legge nei suoi Principes de politicue, recentemente pubblicati — rende gli uomini capaci di esercitare i diritti politici. Solo i proprietari possono essere cittadini”. Ergo: la massa dei non-proprietari, vale a dire la stragrande maggioranza della popolazione, doveva essere esclusa dalla fruizione dei diritti politici e tenuta debitamente distante dal processo decisionale, poiché — è sempre Constant che parla — “quando i non-proprietari hanno dei diritti politici, accade una di queste tre cose: o non traggono impulso che da se stessi e allora distruggono la società, o la traggono dall’uomo o dagli uomini al potere e sono strumenti di tirannide, o lo traggono da coloro che aspirano al potere e sono strumenti di una fazione”.

Ciò che sfuggiva completamente a Constant era che, una volta proclamata l’idea “dei diritti individuali, indipendenti dalla società”, essa non tollerava esclusioni di sorta. Era un’idea a vocazione universalistica, che non poteva essere limitata a una classe privilegiata; un’idea che esigeva una organizzazione della società e dello Stato tale da garantire a tutti gli uomini, quale che fosse la loro condizione economico-sociale, quanto meno la fruizione di alcuni diritti fondamentali.

E, in effetti, questo è stato, a partire dalla costituzione del movimento operaio e socialista, il grande problema che ha travagliato l’Europa per generazioni e generazioni. Attraverso un drammatico processo di selezione storica, due sono state le soluzioni saggiate: quella rivoluzionaria e quella riformista.

La prima è risultata affatto incompatibile con la libertà dei moderni. E’ accaduto ciò che aveva lucidamente previsto Max Weber. L’abolizione della proprietà privata e del mercato ha reciso alla radice la ratio e, con essa, la possibilità stessa di una economia autopropulsiva. Al suo posto, è sorta una versione aggiornata dell’oikos, vale a dire un’economia naturale, condannata ad operare sulla base di “sentenze dittatoriali regolanti univocamente il consumo”. Inoltre, come logica conseguenza della socializzazione integrale dei mezzi di produzione, è sorta “la dittatura dell’impiegato non quella dell’operaio” in quanto la sostituzione della “mano invisibile” del mercato con la “mano visibile” dello Stato onniproprietario è sfociata nella restaurazione della “gabbia d’acciaio”. Né si può dire che la restaurazione della “gabbia d’acciaio” sia stata una conseguenza non voluta della Rivoluzione bolscevica. Tutto il contrario: la distruzione totale della società civile, attuata attraverso una guerra di spietato sterminio contro la borghesia e i coltivatori diretti, fu “scientificamente” pianificata in omaggio all’idea che mercato e comunismo erano realtà inconciliabili. Tant’è che, all’indomani della collettivizzazione delle campagne, Bucharin osservò compiaciuto: ”Lo Stato nel nostro Paese non è affatto separato dalla società civile da una muraglia cinese: l’uno trapassa nell’altra e le innumerevoli — e anche molto ampie — organizzazioni della nostra società civile sono, da un certo punto di vista, organi periferici dello Stato. Infatti, nel nostro Paese lo Stato è sociale e la società civile è statale. Fra loro c’è differenza… Ma nello stesso tempo fra di loro c’è anche unità, ed è prima di tutto unità di scopo. Per questo la Costituzione non ammette altri partiti politici: essa si basa sul principio che la questione su dove andare (indietro, verso il capitalismo, o avanti, verso il comunismo) non può essere oggetto di discussione”.

Neanche si può dire che il bolscevismo abbia tradito l’originario progetto di Marx. E questo perché in Marx non solo si trova, ripetuta mille e una volta, l’idea che la costruzione del socialismo esige “l’abolizione della proprietà privata” e “l’accentramento di tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato”; si trova anche una condanna senza appello della libertà dei moderni. Nella Questione ebraica, Marx apre “un vero e proprio abisso fra liberalismo e socialismo”, così argomentando. Che cosa sono i diritti dell’uomo e del cittadino, solennemente proclamati dalla Rivoluzione francese, se non “i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità”? E che cosa è la libertà liberale, se non la “libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa”? E qual è mai lo scopo delle guarentigie giuridiche, se non quello di proteggere con l’usbergo della legge l’egoismo del borghese? “Nessuno dei così detti diritti dell’uomo — incalza Marx — oltrepassa l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè dell’individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità”. La stessa emancipazione della società civile — rarissimo esempio di inversione della marcia verso la schiavitù iniziata con la nascita dello Stato — è vista da Marx come il trionfo dell”’egoista indipendente”, quindi come corruzione morale e alienazione.

Alla luce del devastante attacco alla libertà dei moderni condotto dal giovane Marx, non può certo sorprendere il fatto che nel Manifesto si inciti il proletariato a “distruggere tutte le sicurezze private e le guarentigie private finora esistite”, cioè a dire a fare tabula rasa dello Stato di diritto. Difficile immaginare un programma più reazionario di quello ideato da Marx e realizzato con satanica spietatezza da Lenin e dai suoi diadochi: l’annientamento di tutte le istituzioni e di tutti i contro-poteri che hanno permesso ai popoli d’Occidente di sfuggire al terribile destino dei popoli che non hanno conosciuto altra forma di dominio che quella dispotica.

Di tutt’altra natura è stata la soluzione faticosamente elaborata nel seno della socialdemocrazia europea. Ai partiti dell’internazionale socialista sono occorsi decenni per liberarsi dell’accecante fascino esercitato dal messianesimo marxiano. Ma, alla fine, hanno capito che sopprimere il mercato significa non solo sopprimere la razionalità economica; significa, anche e soprattutto, sopprimere l’autonomia della società civile a petto dello Stato, senza la quale l’idea stessa di libertà non è neanche concepibile. E hanno capito che Bernstein aveva ragione quando, dopo aver sottolineato le grandi potenzialità di sviluppo democratico proprie delle istituzioni dello Stato moderno, invitava i suoi compagni di lotta a concepire il socialismo come un movimento di riforme politiche, economiche e sociali, erede legittimo e continuatore storico del liberalismo. E, in effetti, l’azione riformatrice dei partiti socialdemocratici ha avuto come fine la socializzazione del mercato, non già, come voleva il marxismo, la sua soppressione. Istituendo il Welfare State, essi hanno allargato il perimetro borghese della democrazia liberale e, accanto alle libertà civili e politiche, hanno fatto valere un tipo di libertà — la libertà dalla soggezione all’indigenza e alle iatture sociali — affatto estranea alla tradizione liberale classica, tutta centrata sulla figura del cittadino-proprietario. La democrazia ha così acquistato il significato di teoria e prassi della universalizzazione dei diritti di cittadinanza. In tal modo, grazie sia alla prodigiosa crescita della ricchezza che all’energica azione dei “moderni tribuni della plebe” — i sindacati e i partiti operai —, è stato possibile realizzare l’integrazione positiva del “proletariato interno” della civiltà occidentale nella Città liberale e lo Stato ha cessato di essere il “comitato d’affari della borghesia”: è diventato, in qualche misura, una agenzia impegnata a garantire a tutti i membri della comunità politica quei diritti e quelle libertà un tempo riservati esclusivamente ai cittadini-proprietari.

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