Lezione della Scuola di Liberalismo di Roma – 6 novembre 1997

Il decimo anniversario della Commissione Bozzi cade proprio nei giorni in cui la Commissione D’Alema – terza Commissione bicamerale della storia repubblicana ad occuparsi di riforme istituzionali, dopo quella presieduta dallo stesso Bozzi nell’84-85 e quella De Mita-Iotti della XI legislatura – approva il testo del progetto di riforma della Costituzione che nei prossimi mesi dovrà essere esaminato dal Parlamento. Mi sembra una coincidenza non priva di significati.

Bozzi all’Assemblea Costituente era stato uno dei padri della Costituzione repubblicana del 1948, la quale aveva contribuito a dare quell’impronta di cultura politica liberaldemocratica che, insieme a quella socialista e a quella del solidarismo cattolico, aveva concorso al compromesso sul quale fu poi possibile realizzare un testo costituzionale assistito da un largo consenso. Testo che ha dato solide basi alla democrazia repubblicana dopo le rovine della guerra e la rottura dell’unità nazionale. Orbene, fu proprio Bozzi tra i primi ad intuire, all’inizio degli anni Ottanta, che quella Costituzione non poteva essere considerata un tabù, come era allora di moda, ma che andava oramai urgentemente aggiornata, sia per adeguarla alle nuove esigenze di una società profondamente maturata, sia per tenere conto delle non sempre felici esperienze di applicazione e disapplicazione delle sue norme.

Contribuì pertanto a promuovere la prima Commissione bicamerale, che fu poi chiamato a presiedere, per l’elaborazione delle necessarie riforme istituzionali e costituzionali. Ero allora Consigliere della camera dei Deputati e fui chiamato a dirigere la Segreteria tecnica di quella Commissione. Cominciò così la nostra intensa e operosa collaborazione, che ho tra i più cari ricordi della mia vita al servizio delle istituzioni.

Sono sempre stato convinto, e oggi sono ancora più convinto, che se la classe politica di allora avesse avuto il coraggio di attivare le riforme intelligenti e razionali elaborate dalla Commissione Bozzi, e dallo stesso Bozzi, presentate in Parlamento con otto progetti di legge costituzionale per la modifica di circa un terzo degli articoli della Costituzione, la storia italiana del periodo successivo sarebbe stata diversa. Soprattutto, non sarebbe continuato e peggiorato quel degrado delle istituzione che ha portato nel tempo ad una situazione di totale disfunzione e caos, dalla quale è sempre più difficile uscire.

Bozzi tentò allora (e fu forse l’ultimo tentativo praticabile) di uscirne non uccidendo la prima Repubblica, come è poi avvenuto, ma riformandola e migliorandola, senza alterare quella che chiamava la “tavola dei valori” che ne costituiva l’identità storica: la forma di governo parlamentare, la divisione dei poteri e la conseguenza ripartizione equilibrata delle funzioni, la reciproca autonomia e la sostanziale pariordinazione degli organi costituzionali. Per perseguire questo fine, Bozzi denunciava le tendenze che fino da allora portavano ad alterare di fatto il disegno costituzionale sul piano materiale, pur senza metterlo in discussione sul piano formale; ed anzitutto quella che chiamava “sindrome di supplenza”, in nome della quale gli organi costituzionali si inducono ad esercitare funzioni che non sono loro proprie, ma spettano ad altri organi. Citava come esempi la consolidata abitudine del governo a legiferare, coll’uso esorbitante ed improprio delle decretazione d’urgenza; ma anche la speculare tendenza del Parlamento a svolgere funzioni governanti regolando con leggi-provvedimento ogni più minuto aspetto della vita sociale, o la prassi della Corte Costituzionale di supplire alle carenze del legislatore con le sentenze additive o manipolatorie, o l’inclinazione della magistratura ad esercitare funzioni di supplenza legislativa con l’interpretazione evolutiva delle norme o a svolgere funzioni politiche con l’uso mirato delle inchieste giudiziarie (e non poteva allora immaginare ciò che è avvenuto dopo, quando per la via delle inchieste giudiziarie si è addirittura aperta una vicenda rivoluzionaria, quella che è stata chiamata “rivoluzione italiana” e che ha travolto la Prima Repubblica). Con le prospettate riforme istituzionali, Bozzi si proponeva – conseguentemente – tra gli obiettivi primari quello di ricondurre gli organi istituzionali a fare ciascuno “il suo mestiere”: questa – diceva – è la principale riforma da attivare, quella che ricomprende tutte le altre. E a fare il proprio mestiere al massimo livello di rendimento: rifiutando una tradizionale contrapposizione, Bozzi riteneva necessario il rafforzamento dei poteri del governo, mortificati dalla Costituente per quello che chiamava il “complesso del tiranno”, dopo l’esaltazione di quei poteri fatta dal fascismo; ma non riteneva che al rafforzamento dei poteri del governo dovesse corrispondere un indebolimento del Parlamento, o viceversa, anzi pensava che ad un governo forte ed efficiente debba corrispondere un Parlamento forte ed efficiente, ciascuno nell’ambito delle funzioni che gli sono proprie. La società contemporanea – spiegava – richiede un buon livello di decisionismo, ma anche un correlativo rafforzamento delle garanzie democratiche, per evitare che il decisionismo degeneri in arbitrio e prevaricazione. Il tutto senza perdere di vista – ripeteva – il principio liberale che lo Stato è fatto per i cittadini, non i cittadini per lo Stato.

In questo senso, Bozzi si inseriva nella tradizione di quel filone del liberalismo italiano che da Cavour a Silvio e Bertrando Spaventa , da Einaudi a Gaetano Martino, da Malagodi a Valitutti, non è mai stato “contro” lo Stato , non ha mai visto nello Stato il “nemico” (alla Hayek), ma ha invece individuato nella costruzione dello Stato di diritto e nella legge liberamente fondata e liberamente accettata la migliore garanzia delle libertà del cittadino. Quando nell’era della cultura politica liberale si è agitata la bandiera fascinosa del “meno Stato”, Bozzi ribatteva che occorre invece “più Stato” , e uno Stato più autorevole ed efficiente, nelle funzioni che dello Stato sono proprie e ne giustificano la stessa esistenza – come il rendere giustizia, il garantire l’ordine sociale, l’assicurare i servizi pubblici fondamentali – e “meno Stato” semmai in quella miriade di funzioni che lo Stato si è progressivamente arrogato nell’ultimo secolo e che potrebbero meglio e più utilmente essere rimesse all’autonomia dei privati e delle parti sociali.

Per questo, il discorso sulle riforme istituzionali lo attraeva in modo tutt’affatto particolare, come strumento per riportare nella società la sovranità della legge e per ovviare al processo di delegittimazione delle istituzioni, in cui individuava il “male oscuro” della presente situazione italiana. Di qui, anche, la simbiosi tra i due grandi amori della sua vita, il diritto e la politica, in cui individuava le strade parallele per la realizzazione di quel disegno. Come ha bene scritto Salvatore Valitutti, in lui “il giurista si distinse dalla figura dell’uomo politico, zampillarono dalla sua profonda umanità vivificata dalle fonti fluenti della sua cultura umanistica”. Aggiungo, come testimonianza nel mio ricordo della lungua frequentazione con Bozzi, che con lui non era possibile parlare di diritto senza parlare di politica, e non era possibile parlare di politica senza finire per parlare di diritto.

Il titolo della raccolta dei suoi scritti e discorsi, che a suo tempo ho avuto l’onore di curare, – “Tra diritto e politica” – credo sintetizzi efficacemente questa simbiosi ideale di categorie dello spirito che altri considerano, un po’ semplicisticamente, divise se non opposte.

Bozzi assegnava alle riforme istituzionali anche altri obiettivi, almeno altrettanto ambiziosi. Come quello di combattere la “crisi della legge”, restituendo alla funzione legislativa il compito di definire e di aggiornare le grandi regole della vita e di sviluppo della comunità associata, svincolandola invece dal peso della normazione settoriale, applicativa e di dettaglio, attraverso meccanismi di delegificazione e delegiferazione. Oppure il tentativo di colpire alle radice l’allora imperversante “partitocrazia”, con i conseguenti fenomeni di lottizzazione e di occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, attraverso una riforma interna dei partiti stessi , che ne garantisse la democraticità, la trasparenza e un equilibrato autocontrollo nel rapporto con le istituzioni. Illusioni? Forse. Ma io credo che si trattasse invece dell’indicazione realistica di proposte che dovevano inquadrarsi in un complesso di riforme estese al campo della giustizia, della pubblica amministrazione , delle autonomie locali, della stessa manovra economica.

Una linea propositiva, quella elaborata da Bozzi nella prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, che costituisce ancora oggi – come ha scritto Francesco Cossiga – “un prezioso deposito di saggezza ed equilibrio”. Per convincersene, basta scorrere le concrete proposte avanzate dalla Commissione Bozzi per risolvere certi nodi fondamentali della nostra vita associativa – come i nuovi diritti civili, le libertà d’informazione, la disciplina dell’emittenza radiotelevisiva, la riforma dei partiti, la rappresentatività dei sindacati. La differenziazione tra le funzioni delle due Camere, la disciplina della decretazione d’urgenza, la delegiferazione e la delegificazione, la riorganizzazione e il rafforzamento dell’Esecutivo, la revisione dell’ordinamento regionale, il referendum consultivo, la “Costituzione dell’economia”, il difensore civico, il nuovo rapporto tra i cittadini e pubblica amministrazione – per rendersi conto che dall’approvazione di una siffatta riforma sarebbe potuta scaturire, se non una Seconda Repubblica, almeno un aRepubblica rinnovata, più moderna, più efficiente, più partecipativa.

Particolarmente incisive mi sembrano le proposte di riforma avanzate da Bozzi per porre rimedio alla crisi del Parlamento, in gran parte determinata dal cosiddetto “bicameralismo perfetto” e dall’esasperante lentezza, ripetitività e antieconomicità delle sue procedure.

Bozzi credeva nel Parlamento, amava il Parlamento, e la sua stessa vita di uomo si svolse per la gran parte proprio in Parlamento, e si concluse con la fine dell’attività parlamentare: uscito dal Parlamento è uscito anche dalla vita, appena dopo qualche mese.

Riferendo un pensiero di Gaetano Martino, lo stesso Bozzi incisivamente affermava che il Parlamento è l’organo che permette di vincere senza uccidere l’avversario, che non solo sopravvive ma continua a dare il suo contributo alla vita e al progresso comune mercè la fedeltà attiva e combattiva alle proprie idee.

E tuttavia, in una fase storica in cui si è affermata in Italia una democrazia bloccata, caratterizzata dal mancato alternarsi di differenti forze politiche alla direzione dello Stato, Bozzi si rendeva conto dei rischi e deglki effetti negativi del cosiddetto “consociativismo”, che rendeva il Parlamento meno competitivo, ben sapendo che un Parlamento in cui la lotta cessa di rivitalizzarlo ristagna e decade. L’opera svolta da Bozzi in difesa del Parlamento resta tra le pagine più significative e non dimenticabili della sua azione politica , ma trovò il suo limite proprio nello stesso Parlamento, in cui la consociazione funzionò da sbarramento ad ogni trattativa di riformarlo e di rivitalizzarlo. Sicchè le linee propositive indicate da Bozzi rimasero sulla carta. Il Parlamento della Prima Repubblica sostanzialmente trascurò le proposte di quella Commissione bicamerale, e la cris istituzionale finì per assumere dimensioni tali che la stessa Prima Repubblica ne fu travolta.

Bozzi mi disse una volta, commentando l’atteggiamento esitante e talora contraddittorio delle maggiori forze politiche sui lavori della Commissione bicamerale da lui presieduta, che i democristiani, i socialisti ed anche i comunisti sarebbero arrivati un giorno a sedersi davvero attorno al tavolo delle riforme istituzionali. Ci vuole tempo e pazienza – aggiunse – ma ci arriveranno, spinti dalle forze delle cose, e quello sarà il momento in cui potremo davvero riprendere il discorso per far decollare le riforme. Ora quel momento è venuto: tardi, ma forse non troppo tardi. La “profezia” di Bozzi sembra cominciare ad avverarsi . Le forze politiche sono profondamente cambiate da quelle di allora, ma il discorso riformista è finalmente ripreso.

Non so se le proposte ora elaborate dalla Commissione bicamerale D’Alema piacerebbero a Bozzi; conoscendolo, tendo ad escluderlo, tendo a credere che non gli piacerebbero proprio. Penso però che gli piacerebbe essere presente alla fase dell’operazione riformista che sta ora per aprirsi, la fase in cui il Parlamento si riappropria del suo potere costituente, per definire collegialmente le nuove regole del gioco per la politica e la società italiana. In quel dibattito, in quelle aule che lo videro protagonista dell’Assemblea Costituente e poi del Parlamento repubblicano, ci mancherà molto la sua voce, ci mancherà la saggezza di questo grande parlamentare liberale, che meglio di ogni altro, forse, avrebbe saputo indicare ancor oggi le riforme di cui l’Italia ha bisogno per superare il gap istituzionale e mettersi al passo con le altre grandi democrazie dell’Occidente. Ci sarà comunque vicino il suo insegnamento, la sua fede nella democrazia e nel Parlamento, la convinzione che il libero dibattito è ancora lo strumento migliore per costruire l’avvenire della comunità associata.

Mi sia lecito allora esprimere una speranza, che a quella fede si ricollega. Si sente parlare in giro di un esame parlamentare “blindato”, che dovrebbe costituire, per volontà dei partiti, una ratifica soltanto rituale di quel che s’è deciso nel Salone della Regina di Palazzo Montecitorio, dove s’è riunita la Commissione D’Alema. La mia speranza e il mio augurio è che invece il Parlamento possa e sappia fare il Parlamento, anche in questa occasione.. personalmente sono figlio del Parlamento, dove ho passato buona parte della mia vita; e credo nel Parlamento come luogo dove si parla e si discute e ci si confronta tra diverse tesi, allo scopo di ricercare la soluzione migliore.La nostra società politica, se non ha accolto nel merito le proposte avanzate da Bozzi nel 1985, si è tuttavia attenuta alla procedura prevista dall’art. 138 della Costituzione, che ha il suo fulcro nel Parlamento, come piaceva a Bozzi. Mi auguro che quella procedura sia osservata in modo sostanziale e non solo rituale; e che il Parlamento, primo presidio della nostra democrazia possa e sappia elaborare, a conclusione dei suoi lavori, e con l’apporto di tutta la rappresentanza popolare, regole costituzionali diverse e migliori per il futuro delle nostre istituzioni.

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